estetica relazionale

glossario

Artisti di carta

Il dibattito sull’arte degli anni Novanta

postfazione di Roberto Pinto


All’inizio degli anni Novanta, una nuova generazione artistica, con caratteristiche proprie, si è imposta prepotentemente nei musei e nelle gallerie più importanti del mondo. Anche chi non è stato testimone attivo di quel periodo, può constatare che, dopo la grande attenzione che critica e mercato hanno rivolto alla pittura e alla figurazione in senso lato, tipiche degli anni Ottanta, la nuova generazione artistica ha bruscamente cambiato direzione di marcia e spostato la propria attenzione dai valori cromatici e narrativi – e dalle abilità tecnico-realizzative legate alla produzione dell’oggetto artistico – agli aspetti concettuali, contestuali e, appunto, relazionali (usando la felice espressione di Bourriaud), diventati elementi generativi delle opere di questi anni.
In Estetica relazionale, Nicolas Bourriaud ha esaminato tali artisti, i mutamenti che hanno introdotto nella loro produzione, e ha articolato le proprie riflessioni partendo sia dagli aspetti espositivi, sia speculativi, le due polarità caratterizzanti l’intera attività del critico francese. Prospettive amalgamate in modo fluido, con l’obiettivo dichiarato di trovare il punto di equilibrio tra piano teorico e curatoriale.
L’incessante dialogo tra fare e principi che ne sono il motore è, quindi, il fil rouge che governa tutto il saggio. Sovente, infatti, le argomentazioni portate a sostegno delle proprie idee nascono dal rapporto con gli artisti e dalla ricerca sulle possibilità di definire un territorio comune alle loro opere.[...]

Lo stretto rapporto con gli artisti è elemento generatore di tutto il lavoro di Bourriaud; ne troviamo conferma anche nei libri successivi, come il recente The Radicant dove, nella prefazione, viene esplicitato tale procedere in modo ancora più chiaro: Troppo spesso ho deplorato l’assenza di legame vitale fra i critici e le opere [...] Le idee espresse in questo libro provengono in gran parte dalla frequentazione e dall’assidua osservazione dei lavori degli artisti.
In tal senso, tra gli antecedenti più prossimi di Estetica Relazionale, non è errato affiancare ai suoi interventi scritti una mostra, Traffic, che il curatore francese realizza al CAPC Museum of Contemporary Art di Bordeaux nel 1996. Molti degli artisti menzionati in questo volume sono, infatti, protagonisti di quell'esposizione.
Le caratteristiche assunte dalle pratiche artistiche dei primi anni Novanta, sono, quindi, il punto di partenza di questo libro; tuttavia Bourriaud specifica con chiarezza, fin dalle prime battute, che gli artisti da lui proposti non hanno in comune uno stile. Tantomeno il suo intento è indirizzato alla creazione di possibili cornici da utilizzare come strumenti di un processo di riconoscimento iconografico, come è avvenuto anche nella storia più recente quando critici e curatori cercavano di accomunare un gruppo di artisti sotto una medesima etichetta. Piuttosto, gli artisti condividono il “medesimo orizzonte pratico e teorico: la sfera dei rapporti umani” [p.44]. Si tratta quindi di rilevare come nei loro lavori sia presente un comune atteggiamento: “tutti operano dunque in seno a ciò che si potrebbe chiamare la sfera relazionale, che sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art e all'arte minimal” [p.45]. Ne consegue, dunque, un cambiamento dei valori legati all’ideazione dell’opera d’arte (ma anche dei valori etici ed estetici che ne derivano) e, in secondo luogo, anche del ruolo che lo spettatore è chiamato a svolgere. Invece di essere relegato a una funzione sostanzialmente passiva (in quanto osservatore di un’opera tradizionalmente intesa), o a fungere da elemento attivo di uno scambio diretto con l’opera d’arte (come in alcune performance), il fruitore diventa, infatti, parte di una community che cerca di costruire delle realtà, se pur transitorie, in cui la partecipazione possa svolgersi secondo un modello orizzontale di scambio: “il senso è il prodotto di un’interazione fra l’artista e l’osservatore, e non un fatto autoritario” [p. 78].
Condividere il cibo con gli altri, come fa Rirkrit Tiravanija, può entrare nella sfera estetica solo se si sposta l’attenzione dall’oggetto finito al processo e al meccanismo di socialità che ne scaturisce, includendo in questa dimensione alcune delle prerogative che tradizionalmente riguardano il campo dell’etica. Certamente questo cambiamento di orizzonte risponde, in modo critico, alle mutate condizioni della nostra società – in cui si è chiamati, nella maggior parte dei casi, ad assistere passivamente a eventi in cui non abbiamo facoltà di controllare alcun parametro – e all’alienazione che questo sistema produce. Inoltre, tale propensione alla ricerca di un luogo per la comunità può essere anche letta come il segnale della necessità di trovare, al di là di divisioni politiche o sociali, una controparte alla dilagante privatizzazione che conduce l’individuo a confrontarsi in modo solitario con i grandi temi della vita4.
A questo proposito è utile sottolineare come la singolarità degli eventi/opere degli artisti relazionali si possa considerare come antitetica (almeno come presupposto) all'estremo individualismo della ricerca di una forma definita e caratterizzante dell'arte più tradizionale, simbolica dell'esasperazione dell'egocentrismo di cui si è spesso nutrita l'arte, soprattutto negli anni Ottanta. Quello che mina profondamente la visione di Bourriaud è l'idea di assoluto, di perfezione formale, di conquista individualista. L'essenza del lavoro degli artisti individuati dal critico risiede proprio nella continua mediazione a cui è costretta l'opera (e con lei ovviamente anche l'artista) nel momento in cui si pone come "relazionale" e che, quindi, ha bisogno di una comunità per svilupparsi, per assumere significato, in altre parole, per esistere
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Se, come abbiamo già scritto sopra, le teorie di Bourriaud sono necessariamente figlie del suo quotidiano lavoro con gli artisti, dobbiamo rilevare come anche Bourriaud curatore sia stato a sua volta fortemente influenzato dall’apparato teorico che stava delineando. Una prova evidente è il lavoro svolto tra il 1999 e il 2006 presso il Palais de Tokyo, innovativa istituzione artistica parigina, di cui Bourriaud ha condiviso la direzione con Jerôme Sans, altro protagonista del panorama artistico recente. Vale la pena di sottolineare che gli indirizzi programmatici della loro direzione, oltre a concentrarsi sulla scelta di artisti e tematiche inerenti alla loro sfera di interessi, si rendevano evidenti anche nella progettazione del sistema allestitivo dove prevaleva un uso sperimentale e laboratoriale dello spazio espositivo. Questo sito di creazione contemporanea (così i direttori avevano battezzato il nascente Palais de Tokyo) non era più concepito come semplice white cube – uno sfondo neutro su cui possano risaltare, senza interferenze, gli oggetti esposti – quanto, piuttosto, come luogo con una specifica identità in cui far nascere, appunto, delle relazioni. La trasandatezza, intenzionalmente lasciata tale, dei muri o dei pavimenti non perfettamente lisci e puliti, non disturbavano le possibilità espressive dei lavori concepiti, per la maggior parte, come work in progress; anzi, le caratteristiche dello spazio erano frequentemente usate dagli artisti come ulteriore elemento da cui partire nella progettazione del lavoro. Altra importante peculiarità del progetto curatoriale dell’istituzione parigina è stato l’uso degli spazi della partecipazione sociale e del merchandising (caffetteria, libreria, locali di disimpegno...) come luoghi espositivi o quanto meno sedi temporanee per lavori specificatamente pensati e realizzati per l’occasione.
Nicolas Bourriaud dimostra una certa capacità nell'influenzare il panorama espositivo con le sue teorie e visioni dell'arte oltre che, come è più consueto, con singole mostre o con l'intera attività svolta nell'istituzione parigina. L'attenzione internazionale ricevuta dall'estetica relazionale è riscontrabile anche attraverso le innumerevoli volte che, direttamente o, più spesso, indirettamente, è diventata soggetto o tematica di mostre. Solo per fare degli esempi si potrebbero citare la Sesta edizione della Biennale di Gwangju, in Corea, in cui il Direttore, Yongwoo Lee, ha chiesto agli artisti invitati di realizzare dei lavori in collaborazione con dei viewer-partecipants, con delle modalità che (anche) in modo esplicito si rifacevano alle modalità teorizzate da questo libro; oppure la più recente Theanyspacewhatever, al Guggenheim Museum di New York, curata dal chief curator del museo, Nancy Spector. Quest'ultima mostra presentava le opere di dieci artisti – Angela Bulloch, Maurizio Cattelan, Liam Gillick, Dominique Gonzalez-Foerster, Douglas Gordon, Carsten Höller, Pierre Huyghe, Jorge Pardo, Philippe Parreno e Rirkrit Tiravanija – tutti protagonisti nelle mostre (nonché in questo saggio) di Bourriaud, presente con un testo in catalogo. Una genealogia che Nancy Spector riconosce ampiamente ed esplicitamente.
Nella seconda parte del libro la centralità del momento espositivo è ribadita esplicitamente: “La nostra ipotesi è che la mostra sia diventata l’unità di base a partire dalla quale è possibile concepire relazioni fra l’arte e l’ideologia che le tecniche comportano, a scapito dell’opera individuale”.
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Uno degli aspetti che il critico mette in risalto con dovizia di particolari è il progressivo interesse degli artisti per gli aspetti temporali, non intendendo con questo soltanto, meccanicamente, l’intervallo della fruizione – legato alla durata del video, o al lasso di tempo necessario allo svolgersi della performance – ma anche (soprattutto) la contingenza dell’accadere. Dato che l’importanza si sposta dall’oggetto al rapporto instaurato con lo spettatore (o comunque alla trama di relazioni che l’opera intesse con l’esterno) diventa fondamentale, infatti, occuparsi della contemporaneità, dell’adesso, dell’hic et nunc: “(l’opera) si presenta come una durata da sperimentare” [p.14]. Anche nel fattore temporale, così come nell’ininterrotto legame con le avanguardie, Bourriaud legge una sostanziale continuità con la modernità che considera viva e vegeta: “Non è la modernità a essere morta, ma la sua versione idealista e teleologica” [p.12]. A partire da ciò, egli coglie una sostanziale continuità di idee tra gli artisti attuali e le avanguardie storiche, con la differenza che l’arte non deve “preparare o annunciare un mondo futuro”, dal momento che “oggi elabora modelli di universi possibili” [p.12]. Le visioni negative, o comunque restrittive, dei teorici della postmodernità (primo fra tutti Lyotard) che attribuiscono all’architettura e all’arte attuale una capacità di intervento limitata, vengono in tal modo ribaltate e la possibilità di lavorare sugli aspetti della quotidianeità è utilizzata nei processi creativi come occasione effettiva di cambiamento sul terreno della realtà concreta, per “apprendere ad abitare meglio il mondo” [p.13].
Bourriaud individua un altro punto fondamentale di passaggio tra le ricerche storiche e quelle attuali nell’allargamento della sfera di interesse e nelle ramificazioni di rapporti che l’arte instaura con le altre discipline: “Ci sembra possibile rendere conto della specificità dell’arte attuale grazie all’ausilio della nozione di produzione di relazioni esterne al campo dell’arte” [p.26]. [...]

Estetica relazionale è, evidentemente, una pietra miliare per chi vuole intraprendere un cammino di comprensione dell’evoluzione dell’arte degli anni Novanta e, conseguentemente, anche di quella più recente. Credo, inoltre, che dare alle stampe in lingua italiana Estetica relazionale sia fondamentale soprattutto se si pensa a quel contesto che denuncia, ormai da tempo, uno scollamento tra pratica artistico-curatoriale e riflessione teorica. Se si avesse bisogno di un’ulteriore prova della nostra disastrata situazione basta sfogliare un recente numero di October che, pur essendo dedicato all’arte della nostra penisola nel dopoguerra, non presenta nessuna firma italiana nella stesura dei testi.
Anche in Italia, tuttavia, negli anni Novanta, attraverso libri o mostre, si stava riflettendo da più parti intorno ai cambiamenti in corso. Si potrebbero citare gli esempi, tutti venuti alla luce nella seconda parte del 1993, di Medialismo di Gabriele Perretta, del libro Arte &Co. di Loredana Parmesani o, anche, il mio Forme di relazione: tutti interventi che basano le loro principali considerazioni sullo spostamento di attenzione dall’oggetto ai processi “relazionali”. Ciò nondimeno, credo sia corretto affermare che, probabilmente, nessuno di questi libri e cataloghi è riuscito a trovare quell’equilibrio tra motivazioni teoriche e scelte artistiche che risulta molto più bilanciato nel lavoro del curatore francese. Curiosamente tutti questi volumi sono stati dati alle stampe quasi contemporaneamente ad Aperto ’93, sezione della Biennale di Venezia, mostra che comprendeva tra i curatori proprio Nicolas Bourriaud che, anche in quella occasione, aveva selezionato molti degli artisti che, successivamente, sarebbero stati anche protagonisti di questo volume, come Fabrice Hybert, Cercle Ramo Nash o Philippe Parreno.
Diversa, tuttavia, la situazione oltreoceano; vorrei segnalare, ad esempio, la mostra Culture in Action tenutasi a Chicago tra il 1992 e il 1993 perché, pur non essendo direttamente riconducibile al lavoro del critico francese, indubbiamente ha articolato in maniera sottile ed efficace, il problema del rapporto con lo spettatore giacché l’intero progetto, curato da Mary Jane Jacob, era incentrato sul tentativo di instaurare un dialogo attivo tra gli artisti e le comunità in cui erano chiamati a lavorare e con cui ideavano nonché realizzavano il loro progetto artistico. Effettivamente questa mostra implicitamente indica che la prospettiva di Bourriaud, come d’altronde quella della stragrande maggioranza dei curatori europei, forse non avesse prestato la dovuta attenzione al fenomeno, in atto negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, della controproposta “politica” all’arte “disimpegnata” che – se in Italia (e spesso anche in tutta Europa) stentava a trovare spazi adeguati – si affermava in modo solido e propositivo negli Stati Uniti. In fondo, le tante azioni e collaborazioni di collettivi artistici come Gran Fury o Group Material (ma il discorso si potrebbe estendere a tutte le pratiche di attivismo artistico), sarebbero potute diventare sicuramente fonte di riflessione per la materia trattata in questo libro.
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Come ulteriore conseguenza si può supporre che il luogo “pubblico”, il museo, crei dei meccanismi di auto-conservazione compiaciuta del proprio ruolo e del proprio potere, trasformandosi in uno spazio per addetti ai lavori, in cui si ripropongono continuamente ritualità ermetiche e narcisistiche. Credo, infatti, che intorno a questi temi sia interessante e fruttuoso porre a confronto la lettura strettamente critica che compie Hal Foster nel libro Il ritorno del reale – anch’esso incentrato intorno al mutato atteggiamento che la nuova generazione artistica assume negli anni Novanta – con Estetica relazionale in cui Nicolas Bourriaud cerca di sottrarre spazio alla distanza critica per un maggiore coinvolgimento (anche emotivo) con gli artisti stessi. Hal Foster dedica un capitolo, "L'artista come etnografo", proprio ad alcuni aspetti caratteristici della ricerca artistica di questi anni, individuando nell'atteggiamento di osservatore partecipante al rito una somiglianza tra la figura dell'artista e quella dell'etnografo. All'interno di questo capitolo Foster scrive: "L'etnografia è considerata contestuale, la richiesta spesso istintiva che artisti e critici contemporanei condividono con praticanti di altre discipline, molti dei quali, a loro volta ambiscono a un campo di lavoro nel quotidiano".
Per concludere il nostro percorso intorno al panorama critico che contestualizza questo libro (e più in generale, alla posizione teorica di Bourriaud) va ricordato l’articolo “Antagonism and Relational Aesthetics” di Claire Bishop in cui si discute intorno al ruolo oppositivo del gruppo di artisti promosso da Bourriaud (concentrandosi soprattutto sulle modalità operative di Rirkrit Tiravanija e Liam Gillick) e della sua teoria. In tale contributo, Bishop sottolinea altresì la presenza di una marcata continuità tra gli artisti relazionali e le pratiche di fluxus o di Joseph Beuys, e che tutta l’impostazione dell’arte relazionale non differisce sostanzialmente dall’idea di opera aperta che Umberto Eco aveva teorizzato nei primi anni Sessanta.

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Nonostante le difformità di giudizio espresse dal panorama critico internazionale, non si può non rilevare che raramente un libro d’arte ha ricevuto tanti riscontri da parte degli addetti ai lavori e (anche) di un pubblico generico, e soprattutto che mai, nella storia recente, un testo ha ricevuto tante recensioni e critiche. L’attenzione che autorevoli riviste, come October o Third Text, mostre, convegni internazionali o importanti teorici come Jacques Rancière hanno riservato, anche a distanza di anni, a Estetica relazionale non può che confermare, pertanto, la preziosa intuizione di Bourriaud che l’ha portato a cogliere con estrema precisione gli elementi vitali dell’arte degli anni Novanta.








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Roberto Pinto è curatore indipendente e storico dell'arte. È ricercatore di Storia dell'arte contemporanea all'Università di Trento. È stato caporedattore di Flash Art, ha curato mostre come la Biennale di Gwangju (2004), la Biennale di Tirana (2005), Subway (vari sedi, Milano, 1998), Transform (varie sedi, Trieste 2002), Spazi Atti (Pac, Milano, 2004), Dimensione Follia (Galleria Civica, Trento, 2004), Confini (Man, Nuoro, 2006). Ha curato le otto edizioni del programma di incontri e conferenze La generazione delle Immagini (Accademia di Brera e Triennale di Milano) e i relativi libri. Tra i suoi libri, si segnala Lucy Orta, Phaidon Press, London 2003. Dal 2004 al 2007 è stato curatore del Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti, Como. Nel 2012 ha pubblicato per postmedia books Nuove geografie artistiche.