La
generazione delle immagini /
Desiderio di Realtà
La
generazione delle immagini raccoglie gli
interventi alla Triennale di Milano nel 2002.
"Desiderio di realtà" è il titolo dell'ottava
edizione della Generazione delle Immagini, un ciclo di
otto incontri sull'arte contemporanea organizzati da
Roberto Pinto con la partecipazione di prestigiosi
artisti internazionali. |
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postmedia books | Roberto Pinto è curatore e critico indipendente. Negli ultimi anni ha curato le mostre Salon des Refusés, Assab One, Americas Remixed, Trasforms, Short Stories, Arte all'arte 2000. Ha pubblicato testi per Phaidon, per il Palais de Tokyo, e per numerosi cataloghi e libri. Insegna Storia dell'Arte presso l'Università di Trento. citazioni Carlos Garaicoa: Il mio lavoro è un dialogo continuo con lo spazio pubblico di ambienti differenti (per esempio, di New York, delle città dell'Africa, delle metropoli europee), non solo con l’Avana. Il progresso e la diffusione del fenomeno visivo degli ultimi dieci-quindici anni, hanno amplificato le possibilità di riflessione sullo spazio pubblico, permettendo così questo dialogo fondamentale tra arte e città. All'inizio degli anni Novanta, decisi momentaneamente di abbandonare la pittura per lavorare sotto altre prospettive con lo spazio urbano. Nelle opere di questo periodo si trova un'idea ricorrente di spazio abitabile (per esempio, quello delle case popolari) che mi ha permesso di lavorare con oggetti e testi, allo scopo di modificare la struttura quotidiana di questi luoghi. Cai Guo-Qiang: Ho studiato scenografia all’Istituto Teatrale di Shangai dove ho imparato molte cose, ma non quelle che si imparano normalmente. Per esempio, come calcolare il prezzo dei materiali, come andare a cercarli, come metterli assieme, come calcolarne i limiti e le possibilità, e poi la partecipazione del pubblico e altre problematiche come il tempo, il movimento del tempo, non riesco a vedere le mie come opere fisse. Ho imparato molto anche da Mao Tze Tung, ho capito che prima dovevo mostrare i progetti in giro e vedere se qualcuno aveva voglia di realizzarli, di sponsorizzarli. Nel 1986 mi sono trasferito in Giappone. Cina e Giappone hanno molte cose in comune e io in quel periodo ho creato dei lavori legati al cosmo e alla natura. Per realizzare Aumentare la Muraglia cinese di 10.000 metri dovevo raccogliere soldi e quindi avevo fatto questa proposta: chiunque voleva venire a vedere doveva pagare circa 3.000 dollari. Io poi ne usavo una parte per realizzare l’opera. Molte persone che volevano assistere erano preoccupate che succedesse qualcosa, come venire arrestati o altro. Allora prima di partire ho preparato questi infusi calmanti di medicina cinese e li ho dati loro. Shirin Neshat: Ogni volta che provo a spiegare il mio lavoro non riesco a chiarire la logica esatta e credo che ci siano aspetti che io stessa non comprendo del tutto. Mi piacerebbe inoltre cogliere l’opportunità per chiarire che, malgrado l’immagine di me e del mio lavoro costruita dai media occidentali, io non pretendo di essere un’esperta o un’ambasciatrice della cultura islamica o, in particolare, della situazione delle donne mussulmane. Io sono un’artista iraniana che vive all’estero. La mia arte riflette il singolo punto di vista di una donna iraniana che vive in esilio. Certamente il mio background personale, la mia formazione e le mie esperienze hanno forgiato il mio lavoro da una prospettiva transculturale. Sin dagli inizi la mia arte ha soddisfatto un’esigenza personale, un modo per rappacificarmi con il mio paese, che ho lasciato tanto tempo fa e che durante la mia assenza ha subito sostanziali trasformazioni politiche. Questo processo ha certamente seguito il suo corso naturale e mi ha portato a produrre il lavoro che ho realizzato finora. Forse il livello di ambiguità del mio lavoro riflette il mio interesse nel volere che lo spettatore non si aspetti dall’artista delle risposte facili su culture così complesse come l’Islam, ma dovrebbe piuttosto guardare alla struttura creata dall’artista per trovare significato. La costruzione concettuale del mio lavoro riflette due mondi, l’Occidente e l’Oriente. Nedko Solakov: Il titolo intero del lavoro è: The Collector of Art (Somewhere in Africa there is a great black man, collecting art from Europe and America, buying his Picasso for 23 coconuts and his early Rauschenberg for 7 antelope bones…). Quello che ho presentato era la capanna del collezionista nero che, come vedete, è solo l’idea di una capanna africana; di fatto nulla corrisponde realmente a una capanna etnograficamente realistica. Quello che rende il lavoro abbastanza reale è il fatto che tutte le opere all’interno sono originali forniti da musei. Eccoli: Liechtenstein, Marcel Broodthaers, Dan Flavin... anche se il lavoro di Dan Flavin non funzionava dato che nel deserto non c’era corrente elettrica. Al collezionista nero questo pezzo piaceva veramente perché si ricordava ancora dell’esperienza magica di quando lo aveva visto per la prima volta. Dunque, Filliou, Luciano Fabro e Joseph Kosuth, i nastri di Bill Viola nella grande cassetta sul retro (non era possibile nemmeno suonare il pezzo di Bill Viola, ma gli piaceva moltissimo). Bill Viola era stato relativamente a buon mercato, il prezzo era stato di soli quattro ananas. Tutte le storie erano scritte a mano su pezzi di cartone ed erano esposte nella sabbia affinché l’osservatore potesse camminare intorno alla grotta e li potesse leggere. Per esempio, la targa a destra dice: “Il pezzo di Marcel Broodthaers non è stato così costoso, soltanto dodici striature di pelle di giraffa (la giraffa di cui era stata usata la pelle era morta durante un temporale)”. Fortunatamente l’animale non era stato ucciso di proposito. |