Laura Leonelli/ 24 (Il Sole 24 Ore) / 05-2008
Persi nel caleidoscopio del reale (archivio)



Cara Ronza / Arte / 11-2007

Il compito politico della fotografia
Politica della fotografia, dell’americano David Levi Strauss (Postmedia, 160 pagg., 48 ill., euro 19), è un libro schierato, contro il governo degli Stati uniti, contro la scelta della forza e contro l’uso che delle immagini viene fatto per renderla accettabile. Poi però la faccenda si complica, perché il male non viene tutto da una parte. La paura e la violenza hanno confini labili. Persino “la retorica della dottrina Bush-Cheney contiene un granello di verità: ovunque, la gente vuole la libertà”. Ma non c’è libertà senza responsabilità e consapevolezza, anche nell’uso dell’informazione, della fotografia e dell’arte. E se Levi Strauss, con il realismo incontestabile di Sebastião Salgado, afferma: “si fotografa con tutta la propria ideologia”, a maggior ragione sollecita uno sguardo critico, diverso da quello allenato da internet, che fa preferire la fotografia alla realtà. Il problema è che “non ce la facciamo a sopportarla”. Se c’è un compito, politico e sociale, della fotografia è di aiutare a guardare la realtà, per non fuggirla.



Francesca De Meis / Photofinish / 11-2007

Quale rapporto esiste tra la politica e la fotografia? In realtà sembrerebbero due mondi molto distanti che hanno poco da dirsi ma invece i punti di contatto sono inaspettatamente davvero molti.
La fotografia ha subito una importante evoluzione negli ultimi anni ed il suo ruolo ha acquistato sempre più rilevanza a livello politico e sociale. Grazie ad Internet ed alla onnipresenza dei media l'immagine è diventata fondamentale e diffusa ad ogni livello ma, proprio come accade per la comunicazione, questo sovraccarico iconografico paradossalmente rischia di lasciare ben poco nei suoi fruitori, cioè noi.
Lo scrittore David Levi Strauss - responsabile del dipartimento di Teoria e critica d'arte della School of Visual Arts di New York - nel suo libro Politica della fotografia, edito da postmedia , offre una analisi lucida ed originale sulla funzione della fotografia nell'era della globalizzazione, mettendo l'accento sul rischio che la sovraesposizione di immagini si trasformi in propaganda, o peggio in illusione digitale. Un pericolo reale di mistificazione che rischia di snaturare il senso stesso delle immagini, le foto dell'attentato alle Torri Gemelle ne sono un eclatante esempio.
Tra i fotografi tirati in ballo da Levi Strauss tra le pagine del libro ci sono anche Joel Peter Witkin (lo scatto qui sotto è opera sua e si intitola La Zattera di George W. Bush, ispirato a La Zattera della Medusa del pittore Gericault) - chocccante fotografo americano tra i più creativi ma semisconosciuto in Italia - e il grande Salgado che della fotografia sociale e di denuncia ne ha fatto una bandiera.



Walter Guadagnini / Il Giornale dell'Arte / 01-2008
archivio


Walter Guadagnini / FMR Bianca / primavera-2008

(...) Infine, vengono pubblicati saggi come quello di David Levi Strauss, Politica della fotografia, che mettono a punto con rigore teorico una serie di riflessioni su queste tematiche, a dimostrazione che l'argomento davvero tocca uno dei nervi scoperti della produzione contemporanea (D.Levi Strauss,  Between the Eyes. Essays on Photography and Politics, Aperture, New York, 2003; ed. italiana Politica della fotografia, postmediabooks, Milano, 2007). In particolare due saggi che compongono il volume risultano particolarmente significativi e centrati rispetti a questi argomenti, quelli dedicati all'opera di Salgado e all'opera di Alfredo Jaar. Autori diversissimi, il primo grande erede della tradizione della fotografia di reportage, l'altro esponente tipico di un'arte che si avvale della fotografia tra gli altri strumenti possibili, come mezzo espressivo privilegiato ma non esclusivo: in entrambi, però, Levi Strauss riconosce la capacità di superare il concetto classico di fotografia documentaria, attraverso scelte linguistiche diverse ma egualmente efficaci.
In conclusione della sua lettura dell'opera di Salgado, scrive Levi Strauss: “Nel periodo in cui il 'messaggio' e persino l'evidente accuratezza della stessa fotografia documentaria scompaiono tra i pixel dell'immagine digitale, nel periodo in cui viene messa in discussione l'efficacia della fotografia sociale, le fotografie di Sebastião Salgado sembrano quasi una nuova tipologia di documento, con finalità e relazioni con l'altro molto diverse, e che fornisce informazioni del tutto diverse sulla differenza. Evitando del tutto la presunta 'oggettività' del fotogiornalismo, Salgado lavora sul terreno delle soggettività collettive, ambisce a quella 'trascendenza del sé che richiede l'epifania dell'Altro' (Levinas, ndr.). Si tratta di un'ambizione che porterebbe nuova vitalità   alla tradizione del documentario”.  E se tale lettura può, in fondo, riportare ancora sul terreno della classicità fotografica, poiché parte dal presupposto della presenza dell'autore e della macchina fotografica all'interno dei fatti che si svolgono per un periodo di tempo estremamente prolungato (come accadeva, ad esempio, ai fotografi della FSA), senza la necessità di un immediato riscontro editoriale o espositivo, che giungeranno solo al termine dell'indagine e della “relazione”, quella dedicata all'opera di Jaar porta invece al cuore dell'attualità...



Silvia Bonomini / La Gazzetta di Parma / 01-2008

La suggestiva Sala dell’Orologio del Municipio di Fiorenzuola d’Arda ospita la personale del famoso fotografo brasiliano Sebastiao Salgado. [...] La sua ricerca fotografica si alterna tra impegno politico ed analisi della realtà offrendo un  prezioso contributo documentario all’umanità. David Levi Strauss, uno dei più grandi teorici della fotografia (suo è un saggio critico scritto la famosa fotografa americana Nancy Goldring in occasione della mostra tenutasi nel 2005 a Parma in Palazzo Pigorini), dedica a Sebastiao Salgado un intero capitolo del suo libro “Politica della fotografia”, con un'introduzione di John Berger e pubblicato in Italia dalla casa editrice Postmedia Books. Qui viene sottolineato che "nel periodo in cui il “messaggio” e persino l’evidente accuratezza della stessa fotografia documentaria scompaiono tra i pixel dell’immagine digitale, nel periodo in cui viene messa in discussione l’efficacia della fotografia sociale, le fotografie di Sebastiao Salgado sembrano quasi una nuova tipologia di documento... "Evitando del tutto la presunta “oggettività” del fotogiornalismo, Salgado lavora sul terreno delle soggettività collettive". In “Politica della fotografia” Strauss mette in evidenza contemporaneamente all’epica sociale di Salgado, la denuncia dichiarata nelle opere di Alfredo Jaar con cui ha documentato “un mare di dolore” del Genocidio del Rwuanda. Ciò dimostra come la fotografia abbia una funzione particolarmente importante perché le immagini fanno più presa sulla coscienza degli uomini rispetto a tanti flussi di parole. [...] Salgado non si è limitato a fotografare i mali del pianeta ma si è impegnato personalmente a combattere questo enorme problema. Assieme alla moglie Lelia Wanick ha fondato un’organizzazione brasiliana senza scopo di lucro, al quale ha ceduto settecento ettari della ex-azienda di famiglia, trasformandoli in area protetta.



Nora Dal Monte / NadirMagazine / 01-2008

L'innocenza della fotografia è un mito che ha avuto vita assai breve. E' bastato relativamente poco tempo perché ci si rendesse conto di quanto "malleabile" fosse il medium fotografico, docile come argilla umida nelle mani di chi necessitava di veicolare un determinato messaggio, pronta ad assecondarne colposi soggettivismi come consapevoli menzogne, incapace di discernere tra buona e mala fede.
Ironia della sorte, tale presa di coscienza si è accompagnata alla crescita esponenziale della presenza ed influenza dell'immagine fotografica nella società, fino ad arrivare alle ragguardevoli vette del nostro presente. Osserva a tal proposito Levi Strauss: «All'inizio pensavo che un numero più grande di persone che realizzano immagini avrebbe certamente portato ad una ricezione più consapevole delle stesse, ma ora non ne sono tanto sicuro. Sembra sia possibile fare foto in maniera altrettanto inconscia di come le consumiamo, evitando del tutto qualunque dimensione critica»; scopo dei saggi raccolti in questo libro è proprio quello di salvaguardare quella sacrosanta "dimensione critica" (quel pungolo che non dovremmo mai permettere ci abbandonasse, come un irritante ma provvidenziale Grillo Parlante), spronando il lettore - considerato soprattutto in veste di fruitore, quando non addirittura creatore, di immagini - a preservare ed auspicabilmente aumentare la propria consapevolezza circa il reale funzionamento delle immagini nella società contemporanea. Nonostante l'ambiguità della fotografia sia un dato ormai assodato, talvolta le sofisticazioni a cui è sottoposta risultano talmente sottili da passare facilmente inosservate.
Fu per ovvi motivi, dunque, che macchina politica e "ragion di Stato" dovettero ben presto fare i conti con le enormi potenzialità persuasive della fotografia, fino ad impiegarla come una sorta di artiglieria al servizio delle verità prestabilite. Percorrendo a ritroso la storia della fotografia in cerca di un plausibile antenato di questo status quo, ci spingiamo fino a quel 1855 a cui per convenzione si fa risalire l'atto di nascita della fotografia di guerra: il fotografo inglese Roger Fenton fu inviato dalla Corona in Crimea allo scopo di dissipare i timori della popolazione circa la situazione delle truppe britanniche schierate al fronte; le circa 300 immagini del suo reportage raccontano una guerra paradossalmente ordinata e quieta, in cui uomini e cose, finanche la morte stessa, hanno ancora il tempo e la voglia di mettersi educatamente in posa per non urtare la sensibilità di coloro ai quali tali immagini sono destinate. Una bugia che fece il giro d'Inghilterra per mezzo di una tournée di esposizioni, e che contribuì a decretare quella verità inconfutabile che ben esprime il regista Wim Wenders con queste poche parole: «La decisione più politica che possa esser presa è dove dirigere gli occhi della gente» (la frase, citata da Levi Strauss, è tratta dal libro L'atto di vedere di Wenders).
Tornando ai giorni nostri, è inevitabile che le cose si siano complicate, di pari passo con l'esplorazione e il valico sistematici dei limiti dell'espressione fotografica. Ben vengano dunque le parole di Levi Strauss, dirette e chiare, che, come afferma John Berger nell'introduzione, «si avvicinano al non-detto; un non-detto che ha poco da spartire con il mistero dell'arte e molto a che fare con il mistero di innumerevoli vite vissute». Le vite, per esempio, dei fotoreporter Cross e Hoagland, uccisi negli anni Ottanta in America Latina: nel saggio ad essi dedicato Levi Strauss ci guida nell'interpretazione dell'(ab)uso che i media fecero delle loro immagini, attraverso la lettura contestuale di alcune copertine e pagine di importanti testate giornalistiche in cui l'informazione si trasforma non di rado in "merce tra le merci", asfissiata dallo spettacolo anestetizzante del consumismo che si svolge attorno ad esse sottoforma di pubblicità; un saggio che ci mette in guardia circa la sbandierata "obiettività" dei mass media, affetta in realtà da una genetica inclinazione verso la propaganda all'ideologia dominante e capace di distorcere a piacimento ogni significato originario in maniera sempre più abile e di conseguenza invisibile, a cui siamo sempre più assuefatti.
Ma le vite prese in considerazione da Levi Strauss sono anche altre, come quelle di fotografi-artisti quali Witkin o la Woodman, le cui immagini, in quanto a loro modo "sovversive", divengono automaticamente passibili di un'interpretazione politicamente connotata (pur nell'accezione più ampia del termine); o le vite interrotte delle vittime dell'attacco alle Twin Towers, insieme a quelle dei fotografi, professionisti od improvvisati tali, che contribuirono a rendere l'11 settembre uno degli eventi più mediali di sempre: di fronte all'impossibilità di sopportare la realtà, preferiamo la distanza irreale delle immagini per confrontarci con il mondo (una curiosità significativa: l'11 settembre 2001, per la prima ed unica volta nella storia di internet, la ricerca di immagini di cronaca superò quella di immagini pornografiche; voyeurismo morboso o impellenza informativa?).
In un altro saggio, infine, si riflette sulla legittimità dell'estetizzazione dell'immagine documentaria, prendendo ad esempio l'emblematica ed "epica" produzione di Salgado: è moralmente lecito perseguire la bellezza fotografando la tragedia? Estetizzare il reale significa anestetizzare i sentimenti, spingendo alla contemplazione invece che all'indignazione e dunque all'azione?, significa ridurre il dolore del mondo a merce di consumo? O non è forse che l'estetizzazione va di pari passo con la trasformazione propria di ogni forma di rappresentazione e comunicazione? Non sarà forse garanzia, al contrario, di una fotografia ancor più "autentica"?
Sono tanti gli interrogativi altrettanto risolutivi che Levi Strauss dissemina tra le pagine di questo libro, talvolta suggerendo con convinzione delle risposte, talaltra lasciando la domanda in balìa della riflessione critica di ognuno; certo che, anche nei casi in cui l'argomento rimanga sospeso, sarà comunque buona cosa averlo sollevato, in quanto «dove c'è calore capita che ci sia anche luce».


Augusto Petruzzi / Drome Magazine / feb-aprile 2008

“Facendo affari con le immagini, la società della comunicazione riuscirà a realizzare ciò che nessun regime totalitario ha mai raggiunto attraverso l’ideologia: il consenso naturale”. La spiacevole ma realista previsione di Bernard Noël tarderà a realizzarsi fino a quando appariranno testi come questo di Levi Strauss, un lavoro importante per diversi motivi. “Se gli occhi sono organi che servono a chiedere”, secondo Valery, qui troviamo una scrittura che non vacilla dinanzi all’interrogazione dello sguardo dispiegando le proprie volute attraverso una coerenza di pensiero fuori dal comune ed una raffinata capacità d’indagine. Tra fotografia, visione, società e arte nel contemporaneo sono affrontate diverse le problematiche, arte e potere, fotografia e propagande, e l’opera di alcuni artisti come S.Salgado, J.P.Witkin e Francesca Woodman. Fin qui sarebbe tutto, solo, molto interessante, ma la penna di Levi Strauss va oltre possedendo la capacità di produrre nel lettore nuove interrogazioni ed articolando riflessioni di estrema lucidità. Lucidità che, in questo caso, è volontà di non abbassare gli occhi dinanzi a quelli ad esempio di Gutete Emerita dall’opera di Alfredo Jaar e il suo “Rwanda Project”. Fuori da qualsiasi posa consolatoria, “Politica della fotografia” è il testo di un autore che di  fronte ad un “mare di dolore” non ha assunto “la sterile posizione dello spettatore”.



Roberto Barzi / Lettera.com / feb 2008

Di fronte al moltiplicarsi dell'uso che si fa della fotografia, all'ubiquità dell'immagine e alla pressante e stressante alacrità dei messaggi, che richiedono tutti con massima urgenza la nostra attenzione, non manca chi si è messo a riflettere sui quesiti che tutto ciò solleva, sugli shock e le conseguenti assuefazioni che derivano da queste frequentazioni. I saggi, che a queste tematiche ha dedicato David Levi Strauss, occupano un posto particolare nella storia della critica fotografica poiché tutti gli argomenti, le suggestioni, le diatribe e le susseguenti connessioni, vengono non solo ripensati e riproposti, ma anche riscontrati, ampliando il discorso all'intera situazione culturale e politica. Focalizzando una rete di linguaggi nella continua evoluzione della fotografia che spargono luce nuova ed eterogenea sul fenomeno e consentono una ricapitolazione stimolante quanto approfondita.

Politica della fotografia: L'occhio della fotografia

Non è che noi scambiamo la fotografia per la realtà: noi la preferiamo alla realtà. Non ce la facciamo a sopportare la realtà, ma sopportiamo le immagini, come se fossero stigmate, bambini, compagni caduti. Noi le soffriamo, le idealizziamo, ci crediamo perché abbiamo bisogno che ci dicano ciò che siamo.

Di solito si legge per puro diletto, informarsi, studiare. Certi libri invece sono scritti per far riflettere, ricordare, approfondire. E' il caso del bel volume Politica della fotografia di David Levi Strauss, nel quale l'autore imprime a termini ambivalenti come politica e fotografia particolari significati, giungendo a legarli in un binomio indissolubile: politica della fotografia, appunto. Ovviamente questa espressione è stata analizzata nei suoi innumerevoli ambiti, alcuni dei quali ambigui per definizione: ci si riferisce soprattutto alla cosiddetta politica editoriale, pubblicitaria, ma anche prettamente artistica. David Levi Strauss si chiede quali significati si possano attribuire alla fotografia attuale, in un'epoca dominata da Internet. Come viene usata e/o distorta dagli artisti, fotoreporter e mass media. Le sue risposte sono molteplici, proprio come lo sono gli usi che se ne fanno a fini politici. Già, politici, come da sempre è capitato alla scultura e alla pittura, divenuti - da semplici mezzi comunicativi ed espressivi - dei simboli politico/culturali della società, ed in particolare del potere, qualunque esso sia. Nessun tipo di società è mai stata sovrastata dalle immagini come quella attuale, eppure la capacità di comprenderne a fondo i messaggi sembra diminuita rispetto al passato, poiché è sempre più facile manipolarle, aggiustarle, correggerle quel tanto che basta per rettificarne il messaggio o il significato originale.
In Politica della fotografia Strauss analizza vari contesti: dall'impiego della fotografia nella propaganda politica all'immagine intangibile dei sogni, dall'epos sociale di Sebastião Salgado alle rivelazioni intime di Francesca Woodman, dalla frenesia mediale dopo la tragedia dell'11 settembre alle denunce di genocidio del Rwanda nelle opere di Alfredo Jar. "Rwanda, Rwanda, Rwanda. Rwanda: ora questo nome ci rimanda a tante immagini, cadaveri lividi e gonfi che galleggiano sul fiume Kagera, alla deriva come legna in fondo ad una cascata; corpi smembrati e dispersi nel cortile di una chiesa, ai piedi di una luccicante statua del Cristo Salvatore con le braccia al cielo in segno di benedizione [...] Le immagini servivano per illustrare le notizie, ma alla fine agivano per conto loro. La verità è che nessuno legge queste notizie: se la gente le leggesse, avrebbe reagito per fermare il genocidio [...]"
Alla sorte ancor più allarmante dei bambini di strada: "[...] Ogni anno, negli Stati uniti, un milione e mezzo di ragazzini fuggono di casa. Molti di loro finiscono per strada. Contrariamente a quanto si pensa, la maggior parte di loro fuggono non perché vogliono, ma perché devono; persino le strade sono più sicure rispetto a quello da cui fuggono [...]" A quello che le fotografie, soprattutto quelle digitali - o più in generale le immagini -, ci rappresentano. Anche se ormai siamo più abituati a collezionarle, classificarle, soprattutto scaricandole da Internet, che non ad osservarle, interpretarle e valutarle per ciò che veramente ci appaiono, e in moltissimi casi non sono.
Con la sua incessante denuncia dello sfruttamento del mezzo fotografico lo scrittore intende portare alla luce e analizzare le controversie culturali, sociali e artistiche che dominano gli ultimi due secoli. Lo fa per mezzo della propria forza intellettuale, poetica, critica, segnalando al contempo i difetti che la fotografia, per quanto realistica e innocente possa essere, si porta dietro dalla sua nascita.
Non mancano ovviamente, quali fondamenti estetici, dei capitoli in cui è l'immagine artistica ad emergere, anche se non rinuncia a denunciare, in questi casi, come persino l'arte possa essere, inconsciamente o consciamente, condizionata e manipolata dalla personalità del suo autore, come si deduce leggendo le magistrali pagine dedicate alle solenni immagini di Joel-Peter Witkin.
Tutto questo in un volume che si legge con scioltezza, nonostante gli argomenti trattati facciano ricordare anche ciò che si è tentati di obliare, ma soprattutto pensare. Uno di quei saggi da tenere sempre a portata di mano, per rileggerlo, per approfondirne le tematiche e per non dimenticare che l'attuale politica delle immagini è divenuta la nostra nuova, ambigua quanto efficace dittatura.




Vito Calabretta / peacereporter.net / aprile 2008

(...) Nell'introduzione al libro di David Levi Strauss, John Berger parla di questi aspetti quando dice che «stiamo vivendo il caos più tirannico, forse più pervasivo, che sia mai esistito» e che la strategia di questa tirannide, una strategia stupida quanto spietata, «è quella di screditare l’esistente in modo che tutto si riduca ad una versione speciale del virtuale da cui (questa è la dottrina della tirannia) si trarrà una fonte infinita di profitto».
Il libro di Levi Strauss è intitolato alla fotografia e alla politica ma affronta concetti che appartengono all’analisi di più aree: fotografia; politica; potere; immagine; arte.
Infatti, a pagina 143 del libro, Levi Strauss cita una frase del poeta Robert Kelly: «senza arte non ci sarebbe alcun potere». Il libro quindi, nel suo modo molto breve e frammentario, affronta uno dei temi fondanti della nostra civiltà: il rapporto funzionale, talvolta, anti-funzionale, talaltra, che esiste tra i sistemi di potere e di controllo politico e i sistemi di produzione di immagini, siano essi definibili in termini di arte, in termini di fotografia, di documentario o di immagine. C’è un altro aspetto collegato e lo vediamo nel breve saggio dedicato a Francesca Woodman e in quello dedicato a Joel-Peter Witkin: il valore politico della ricerca artistica e , per esempio, della riflessione sul tempo.

Si tratta dunque di un piccolo e frammentario contributo a una riflessione dalla quale non dovremmo prescindere, perché soltanto discutendo e analizzando questi temi possiamo cercare di interrompere il flusso che ci trasforma ogni giorno in «cittadini sempre più docili» (p. 141). Analizzare il sistema dell’arte e dell’immagine è un modo centrale per analizzare il nostro mondo e questo libro contribuisce a costruire una analisi articolata. David Levi Strauss lo fa in modo deciso e con delle opzioni politiche che gli fanno indicare, per esempio, Sebastiao Salgado come un modello di reporter: una definizione altamente discutibile che si fonda su un’idea di “estetizzazione” della documentazione che sembra essa stessa una scelta politica.
Il libro poi, verso la fine, propone tre “testi-immagine”, di cui ci basta ricordare il primo dedicato alle lacrime morte di Nelson Mandela. I tre testi si collegano alcune liriche immagini testuali contenute nella introduzione di Berger e discutono in modo costruttivo, altra scelta politica, la relazione e l’equilibro tra parola e immagine. Insomma: un libro da leggere e da discutere, un contributo vivo.

 
 
 
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