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Le insidie delle immagini

Politica della fotografia

 

 



Dimenticare la fotografia
di Andrew Dewdney



postmedia books 2023
248 pp. 12 ill. 
isbn 9788874903504

 

s 24,00

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Se la fotografia non è più fotografia, allora cosa facciamo sui nostri smartphone, macchine fotografiche e computer, caricando, scorrendo, strisciando, salvando, condividendo e stampando? La creazione di immagini è diventata parte integrante della vita stessa. Se questa non è fotografia, allora cos'è? Vedremo che una serie di nuovi termini sono venuti in aiuto dell'immagine fotografica per aiutare a descrivere il suo stato attuale, come tecnico, libero, fluido, soft, operativo, macchinico, non umano e, il termine preferito qui, network image o immagine in Rete. Questi aggettivi vengono utilizzati per descrivere quella che è stata definita fotografia espansa, da un lato, e immagine computazionale o algoritmica, dall'altro.
_ Andrew Dewdney

 

Perché dobbiamo dimenticare la fotografia e rifiutare la cornice di realtà che essa prescrive e delinea. Il paradosso centrale di questo libro è che nel momento in cui la fotografia viene sostituita dall'algoritmo e dal flusso di dati, le culture fotografiche proliferano come mai prima. L'aldilà della fotografia, per quanto tecnicamente residuale, mantiene una potente presa culturale e rappresentativa sulla realtà, che è importante comprendere in relazione alle nuove condizioni. Dimenticare la fotografia è una strategia per rivelare la storicità ridondante della costellazione fotografica e l'immobilità culturale del suo epicentro, per liberare l'immagine dalle catene storiche della storia dell'arte e della teoria fotografica. Dimenticare la fotografia significa anche rifiutare la cornice di realtà che essa prescrive e delinea, aprendo così altre relazioni tra corpi, tempi, eventi, materiali, memoria, rappresentazione e immagine. Questo saggio cerca di sviluppare un metodo sistematico per rivelare i limiti e le prescrizioni del pensare con la fotografia. C'è un urgente bisogno di andare oltre la fotografia per comprendere l'attuale costituzione dell'immagine e la realtà che essa mostra. Dimenticare la fotografia richiederà un modo diverso di organizzare la conoscenza del visivo nella cultura e un modo diverso di pensare al lavoro di routine e creativo e alle sue pratiche di conoscenza all'interno delle istituzioni e dell'organizzazione della riproduzione visiva. Questo libro sostiene che se vogliamo comprendere la politica della rappresentazione nell'era post-fotografica o, più specificamente, l'immagine alle condizioni della riproduzione capitalistica e computazionale, esiste un prerequisito necessario, ovvero la necessità di "dimenticare la fotografia". Il termine stesso di fotografia è un ostacolo alla comprensione dello stato alterato dell'immagine visiva standard. Il paradosso centrale esplorato da questo libro è il momento in cui la fotografia viene sostituita tecnicamente dallo schermo, dall'algoritmo e dal flusso di dati, in cui le culture fotografiche proliferano come non mai. La fotografia è ovunque, ma non come l'abbiamo conosciuta; da tempo è un non-morto, uno zombie, in cui il linguaggio, il pensiero, i significati e i valori consolidati della fotografia costituiscono un ostacolo alla comprensione della nuova condizione. L'attuale modalità di produzione e circolazione dell'immagine stravolge la rappresentazione visiva e con essa cambia il nostro modo di pensare il genere umano e il mondo. L'immagine è fuggita dalle sue forme analogiche e ora infesta l'intimità opaca dello schermo e le sue astrazioni algoritmiche, creando nuove domande su come comprendere il significato visivo, anzi tutto il significato, nella cultura computazionale e di rete. Questo libro ci lascia in eredità anche la questione di come considerare la vita oltre la morte della fotografia.

 

Uno dei problemi principali che il libro esamina è che la fotografia, così come è ancora conosciuta, partecipa alla riproduzione della realtà della vita quotidiana, pur sembrando distinguersi come rappresentazione in diversi registri di quella realtà. Inoltre, secondo il senso comune, l'immagine fotografica è considerata sinonimo del riflesso corporeo spontaneo della vista, del vedere naturale, eppure la fotografia è tutt'altro che naturale; è soprattutto un artificio grafico, un codice pittorico bidimensionale di comunicazione simbolica. La fotografia, in quanto parte della riproduzione dei modi di vedere, nel corso del XX secolo si è naturalizzata nel mondo della vita quotidiana come finestra trasparente sulla realtà, oltre a essere adottata come misura scientifica ed espressione estetica. La fotografia si riproduce inconsapevolmente anche come unità fotografica. Al di là delle pratiche della vita quotidiana, la produzione di conoscenza sociale e scientifica legata alla riproduzione è formalizzata a un livello terziario di ricerca commerciale, statale ed educativa, in cui è coinvolta anche la fotografia. Districare le idee sulla fotografia, i modi di vedere e il visivo nella cultura è uno dei compiti che ci si prefigge in seguito. Il visivo nella cultura occidentale contiene un paradosso: la visione umana è sia una proprietà evolutiva dell'occhio e del cervello sia qualcosa che gli esseri umani costruiscono collettivamente...

 

Ma questo suo nuovo ruolo continua ad essere mascherato da un'idea della fotografia come bene privato, che non le corrisponde più. Mi convince, quindi, quello che scrive uno studioso britannico dell'immagine tecnologica, Andrew Dewdney, in un testo molto radicale e provocatorio fin dal titolo, Dimenticare la fotografia, che trovate ora anche in traduzione italiana. Ovvero: la fotografia è ovunque, ma non come l'abbiamo conosciuta; da tempo è un non-morto, uno zombie, in cui il linguaggio, il pensiero, i significati, i valori consolidati della fotografia costituiscono un ostacolo alla comprensione della sua nuova condizione. Il guaio con la fotografia, sostiene Dewdney, è l’incredibile resistenza concettuale che oppone al cambiamento. Continuiamo a credere che sia sempre la stessa da quando, due secoli fa ormai compiuti, un manipolo di inventori dilettanti cominciarono a pasticciare con sostanze chimiche e camera oscura. Non è così, ovviamente [....] Ma quel mondo è cambiato. Ha lasciato il posto a un post-mondo (aggiungete un post- a ogni voce dell'elenco precedente…) che funziona diversamente dal precedente. La fotografia è morta assieme a quel mondo passato? Sì e no. Per molti versi, non è più uno strumento consonante con lo spirito del neocapitalismo. Per sopravvivere nel nuovo ambiente, ha bisogno di trasformarsi. Quando il capitalismo industriale produceva merci, la fotografia oggettivava visioni. Ora che il capitalismo finanziario produce valore astratto, la fotografia diventa impalpabile. Le immagini prodotte dall'intelligenza artificiale sono l'esempio perfetto di questo adeguamento. Così come la finanza speculativa produce denaro per mezzo di denaro, l'AI produce immagini per mezzo di immagini. _ Michele Smargiassi, Fotocrazia, La Repubblica, 16 giugno 2023

Quest'ultimo capitolo, in cui l'autoritratto si è fatto selfie divenendo di fatto capitale digitale, per essere compreso e conosciuto in tutti i suoi aspetti – tecnici ed etici – impone un ripensamento della fotografia. Questo è per lo meno il parere (e non solo per i selfie) di Andrew Dewdney che nel suo ultimo libro Dimenticare la fotografia pone l'accento sulla necessità di obliare le categorie attraverso le quali si è analizzato il medium fotografico fino a questo momento. Del resto, effettivamente, di quello scrivere con la luce è rimasto veramente ben poco. Il corposo volume di Dewdney, ricco anch'esso di casi studio, si immerge così in quella che viene definita la post-fotografia, ovvero il network image o immagine in rete, che indica la fotografia espansa o l'immagine computazionale o algoritmica. Questo modo di guardare l'immagine permette facilmente di spostare l'attenzione più in generale ai processi di rappresentazioni, rispetto a quelli fotografici come li abbiamo conosciuti sino a oggi. Questo perché – come sottolinea tenacemente l'autore – occorre analizzare l'immagine e il mondo visivo nella cultura in rete, in connessione con la codifica fotografica della realtà che interagisce a sua volta con le forze geopolitiche e biopolitiche globali. Dimenticare la fotografia non significa allora proclamare l'ennesima morte dell'arte, ma avviare un approccio allo studio delle immagini che si affranchi dall'iper-specializzazione del mondo accademico e favorisca una «visione sinottica in cui le riflessioni sulle tecnologie e sulla vita culturale vadano a incentivare la regolamentazione dei media e delle telecomunicazioni». Se è vero infatti che un tempo la fotografia era una forza rivoluzionaria e radicale (come dimostra l'uso del mezzo nella costruzione del sé nelle pratiche femminili e femministe), ora può essere considerata di buon grado, a queste condizioni, una forza conservatrice. Le pratiche performative relative all'autoritratto, in ogni caso, incidono in maniera più o meno significativa sui processi di soggettivazione: _ Serena Carbone, Antinomie, 4 ottobre 2023

 


 

 

 

 

 

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Mi chiamo Andrew Dewdney e sono professore di ricerca e supervisore di dottorato presso la School of Arts and Creative Industries della London South Bank University. La mia ricerca si concentra sul modo in cui le tecnologie digitali e l'informatica stanno cambiando il valore culturale e il suo impatto sulla sfera pubblica. Questo ha portato a due aspetti specifici, ma correlati, della ricerca. In primo luogo, come la fotografia e l'immagine fotografica siano state trasformate dall'informatica e quale sia l'impatto sulla cultura visiva. In secondo luogo, il modo in cui la digitalizzazione delle collezioni e la loro circolazione online hanno avuto un impatto sul museo e sulla cultura del patrimonio. Dal 2006 a oggi ho svolto attività di ricerca finanziata da enti esterni. Nel 2006 sono stato il ricercatore principale di un importante premio AHRC per un progetto triennale in collaborazione con la Tate Britain, intitolato TaTe Encounters; Britishness and Visual Cultures. Ho guidato un équipe di sette ricercatori nello studio del modo in cui la Tate concepisce il suo pubblico rispetto alle barriere culturali all'accesso. Ne è scaturita un'importante relazione per gli amministratori della Tate, un archivio di materiale di ricerca sul sito web della Tate e il libro Critical Museology:Theory and Practice in the Art Museum (2013), pubblicato da Routledge. Come risultato della ricerca sono stato invitato a parlare a livello internazionale e a contribuire con capitoli sull'argomento a diversi libri. Come co-direttore del Centro per lo studio dell'immagine in Rete, supervisiono dottorati di ricerca in collaborazione con le seguenti organizzazioni: Serpentine Galleries, The Photographers' Gallery, Fotomuseum Winterthur, Rhizome e Gasworks.

_ Andrew Dewdney

 

 

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