learning from cities

introduction



Introduzione

di Francesco Garofalo e Richard Burdett



1. Il contesto della Biennale 2006

FG: Che cosa ci si aspetta dalla mostra internazionale della Biennale di Venezia? La prima - “La presenza del passato” di Paolo Portoghesi nel 1980, fu un “manifesto”, e ha aperto le porte delle Corderie dell’Arsenale. La seconda tappa importante fu quella del 1991, quando Francesco Dal Co per la prima volta riuscì a far aprire mostre in tutti i padiglioni nazionali. Tuttavia, con il passare del tempo, la mostra si è trasformata, per lo più, in una rassegna di progetti. La responsabilità non mi sembra tutta dei direttori. E’ sempre più difficile interpretare una grande mostra basata ogni volta sullo stesso formato, e sempre sugli stessi spazi, che poi sono quelli della esposizione di arti visive, che dispone di risorse maggiori. Da questo punto di vista l’edizione 2006 introduce una serie di novità, e rappresenta una forte discontinuità, che naturalmente è stata anche oggetto di critiche.

RB: Prima di tutto dovremmo ricordare che la Biennale di Venezia è una “macchina culturale” davvero eccezionale. Si staglia ancora oggi sulla scena globale per la sua originalità e il suo impatto in diverse discipline artistiche. Dopo tutto, da parte del governo italiano, è insieme l’assunzione di un enorme rischio e un significativo investimento, affidare ad un solo individuo il compito di montare una grande mostra su cui si basa tutta la reputazione dell’istituzione. Nel mio caso, ho potuto sfruttare la straordinaria libertà curatoriale offerta dalla Biennale per fare una esposizione che si costruiva sul vasto programma di ricerche interdisciplinari sulle città che ho portato avanti negli ultimi sette anni alla London School of Economics. Questa scelta implica chiaramente un certo grado di discontinuità come le esposizioni precedenti che sono state di natura più “documentaria” e “celebrativa”, ma si colloca bene nella consolidata tradizione della Biennale di ricercare legami tra le diverse discipline culturali - in questo caso l’architettura - e le complessità della sfera sociale.


FG: La mostra si intitolava “Città. Architettura e società”. Partendo dal fatto che per la prima volta la popolazione urbana diventa la maggioranza globale, l’attenzione si concentra sulle metropoli vecchie e nuove, in cui le conseguenze di questi spostamenti si vedono meglio, e causano problemi più acuti. Per rappresentarli nella mostra mi pare che si sia scelto di privilegiare alcune chiavi di lettura e alcune forme visive: la fotografia zenitale dal satellite, il ritratto dello spazio di un gruppo di fotografi molto bravi, e diagrammi che enfatizzavano la densità. Questo, in un certo senso, da conto della parola “città” nel titolo. Rimangono da definire “architettura” e “società”. La prima era presente, ma in un modo diverso dalle esposizioni precedenti. Eravamo stati abituati a vedere un certo gruppo di progettisti come dei colossi, guardati dal basso. La mostra li ha solo rimessi in scala. E l’ulteriore novità è la società, intesa come classi dirigenti urbane, e programmi in senso lato (per i trasporti, la residenza, lo spazio pubblico ecc.). Mi domando tuttavia quanto è chiaro il confine tra la documentazione dei problemi, e la efficacia delle risposte, e se il giudizio è lasciato al visitatore.

RB: L’ambizione della mostra era di dare la sveglia a tutti coloro che sono coinvolti nella produzione dell’ambiente costruito e dell’ambiente urbano: chiaramente ci sono gli architetti e gli urbanisti, ma anche gli immobiliaristi, i politici e le classi dirigenti. Il tema di base che sta dietro alla metodologia di ricerca e alla forma di presentazione è che ci sono delle connessioni fondamentali tra la sfera fisica e quella sociale, e che le loro interazioni devono essere spiegate e comprese. Non è mai stata mia intenzione trattare questo tema vasto e complesso in un modo semplicistico, in cui qualcuno pone un “problema” e poi trova una “soluzione”. Infatti, è proprio questo paradigma di pensiero e di azione che oggi fa tanti danni al nostro ambiente urbano. La mostra pertanto era esplicitamente progettata non per fornire una serie di soluzioni digeribili e ripetibili ai problemi che ho sollevato; speravo piuttosto - aprendo gli occhi ai visitatori sulle questioni - che la responsabilità sociale dell’architettura potesse essere meglio compresa. Qualcuno ha criticato la mostra perché sarebbe stata contro l’architettura. Io spero di essere riuscito a dimostrare il contrario, proprio ribadendo la sua profonda importanza.


2. L’esperienza Learning from Cities

FG: All’inizio abbiamo discusso un po’ della formula, partendo dall’idea utopistica di far lavorare gli studenti a Venezia. Era utopistica almeno in quel momento, e con i limiti imposti dal programma. Se si dovesse parlare ancora delle università alla Biennale, varrebbe la pena di ripensare al progetto: trovare uno spazio fisico, una struttura temporale appropriata, un rapporto con l’Università di Architettura di Venezia che ha adottato questa formula didattica con grande successo.
Per fare un grande laboratorio e raggiungere una massa veramente critica, abbiamo stabilito di invitare oltre venti scuole, per metà italiane. Non c’è un’altra spiegazione di questa simmetria. Con le risorse messe a disposizione dalla Biennale, e l’impegno richiesto alle università straniere, non era possibile fare di più. Alla fine non si è avvertito un particolare squilibrio, e le facoltà italiane hanno svolto un po’ il compito di paese ospite, stabilendo alcuni interessanti legami di collaborazione con gli stranieri.
In fondo c’era un criterio geografico e globale adottato alla scala nazionale e internazionale. Pur dovendo fare i conti con le diseguali risorse delle università nei diversi paesi, il tentativo era quello di far somigliare il nostro laboratorio alla mostra globale.


RB: Quello che mi colpisce della Biennale è il suo potenziale di funzionamento come risorsa di base. Avendo passato molti giorni a passeggiare su e giù per l’Arsenale e tra i padiglioni, sono rimasto impressionato dal numero di persone, bambini, studenti, professionisti e non, che si lasciavano coinvolgere dalla mostra, prendendo appunti, usando i telefoni cellulari per fotografare i modelli, le immagini e le didascalie. Se ne potrebbe ricavare molto di più. Da questo punto di vista la Biennale offre un potenziale vivo di ricerca, ma il suo calendario serrato (che peraltro è uno dei suoi punti di forza) rende molto difficile il suo uso come strumento didattico per istituzioni educative che devono programmare le attività per tempo. Il collegamento molto positivo e produttivo dell’iniziativa “Learning from Cities” con la mostra è stato reso possibile dalla disponibilità anticipata di un cospicuo materiale di ricerca, e dalla fame di scambi di alcuni personaggi-chiave nelle scuole di architettura in giro per il mondo. A un certo livello, l’apertura del tema ha facilitato questo scambio e prodotto risultati positivi che non si esauriranno certo con la mostra in se.

FG: Il seminario iniziale che si è svolto durante l’inaugurazione è stato un grande viaggio di studio. Alle implicazioni di una discussione così ampia, confesso che non eravamo preparati. Ce ne siamo resi conto durante la riunione nel teatro dell’Arsenale, uno spazio enorme, con gli studenti a riempire la platea, e i professori schierati sotto il palco. Questa situazione ci induce a riflettere sul workshop come esperienza collettiva. Per quanto si parli di internet e di blog, la vera atmosfera è quella della presenza fisica. Lo spazio della discussione formalizzata diventa difficile per una massa di studenti come questa, che si trasformano in pubblico cedendo il microfono ai propri professori. Anche per questo bisognerebbe inventare una struttura di discussione più molecolare, a piccoli gruppi e fondata sul confronto per temi e su aggregazioni tra scuole.
Lo sviluppo dei progetti è avvenuto nelle facoltà e nelle esplorazioni delle città, di cui abbiamo le testimonianze nei video e nelle foto. Anche qui si è creata una rete molto interessante, in cui alcune università ospiti si mettevano in relazione con le altre (penso al gruppo di Siracusa al Cairo, a quello di Venezia a Istanbul, e a quello dell’MIT a Torino).
L’allestimento è stato il momento più rischioso ed esaltante. Era evidente che lo spazio non poteva contenere le installazioni, che le risorse tecniche erano insufficienti, e soprattutto che nelle due sale non potevano lavorare contemporaneamente oltre cento persone. Sono i momenti in cui si scopre la genialità degli studenti e dei docenti e ci si riconcilia con la capacità di sopravvivenza di quelli che fanno architettura.
Anche il seminario finale è stato tutto sommato un successo: si è visto allora lo spirito critico che serpeggia nelle pagine di questo volume. Di fronte ai contesti delle città oggetto della mostra, molti volevano capire chi erano gli interlocutori dell’architettura; si interrogavano polemicamente sulla definizione di programma, gli strumenti dell’analisi, la legittimità dei progetti, il giudizio sulla città informale, l’identità culturale. E’ tutto venuto fuori anche con qualche punta di aggressività. L’intervento di Omar Nagati del Cairo è stato così lucido, che gli ho chiesto di lasciarne traccia anche nel catalogo.
Learning from Cities, peraltro, non è finito nel novembre 2006 con la premiazione della giuria. Nell’anno successivo ci sono state esposizioni dei progetti in diverse facoltà, a Patrasso, Torino, Ascoli, e in futuro in Cina. Esistono cataloghi monografici della partecipazione di Ascoli, Tsinghua, Siracusa, Bilgi e altre facoltà.


RB: Io credo molto all’importanza dello spazio pubblico e del coinvolgimento diretto. Quindi sono lieto che tu ritenga che la dimensione più interattiva del seminario e del workshop abbiano funzionato bene. Naturalmente si sarebbero potute dare più risorse e più spazio alla mostra finale degli studenti, ma la densità delle presentazioni e l’intensità dell’esperienza rispecchiano il fatto che davvero le installazioni erano intese come frammenti di elaborazione, e non come presentazioni patinate. Posso dire che la giuria ha trovato esaltante la dinamica degli ultimi giorni; in alcuni casi le spiegazioni entusiastiche in diverse lingue fornite dagli studenti apparivano più illuminanti dei pannelli e dei plastici esposti. Naturalmente il tema in questione, la città, consente a persone di provenienza diversa di ritrovarsi e scambiare idee in un modo molto più aperto che non in un tipico corso di progettazione su un edificio specifico in un determinato sito. Spero solo che tutti coloro che hanno partecipato, docenti e studenti, ne siano ritornati con la sensazione che la Biennale ha offerto loro un’esperienza multiculturale e interdisciplinare difficilmente replicabile, indipendentemente dalla quantità di risorse che si potevano mettere a disposizione.

3. Il contributo specifico delle facoltà

FG: Ho il privilegio di una tale anzianità da aver lavorato alla mostra “Venice Prize”, coordinata da Pippo Ciorra per la Biennale di cui era direttore Francesco Dal Co nel 1991. La centralità della mostra aveva permesso di utilizzare le Corderie e di invitare ben 43 scuole. Rispetto alla nostra attuale esperienza, mancò la possibilità di un lavoro su obiettivi comuni, ma la convivenza nell’Arsenale dei gruppi per i 15 giorni precedenti l’inaugurazione fu molto eccitante. Quanto sono diverse le scuole di allora da quelle di oggi? L’effetto della globalizzazione si vede, e credo in modo positivo, poiché l’università rimane uno spazio in cui dialogo e conflitti vengono messi in una cornice, senza essere soppressi. L’accostamento delle identità e delle posizioni disciplinari che era evidente nel 1991, ha lasciato il passo a una grande uniformità di comportamenti, modi di lavoro, diffusione di capacità e conoscenze condivise, che senza produrre un appiattimento, permette una confronto a un livello superiore.

RB: Sono meno sicuro di te che le diverse scuole di architettura nel mondo operino a un livello più alto, o con uno sguardo più sofisticato di quanto facessero all’inizio degli anni novanta. Penso che ci sia molta strada da fare, ad esempio, per riconnettere il dibattito architettonico alle questioni ambientali e sociali che staranno di fronte alle future generazioni di architetti.

FG: Il margine di libertà che abbiamo lasciato alle facoltà di scegliersi un tema e una città, ci dice qualcosa degli interessi per l’architettura delle diverse università. Mumbai stata la città più richiesta, il che testimonia dell’interesse per la sfida posta dagli insediamenti informali. La seconda è Istanbul, vista come metropoli moderna, in cui la densità e la differenziazione culturale costringono a superare gli strumenti tradizionali di intervento. Forse i contributi meno incisivi sono stati quelli che non hanno voluto legare a un contesto preciso la proposta, anche se hanno prodotto anche loro ricerche di grande bellezza.

RB: La grande forza dell’architettura è che ha un impatto sulla gente e sui luoghi reali. Questo era il punto-chiave di tutta la mostra e la ragione per cui i progetti più focalizzati erano quelli meglio riusciti. Non sono sorpreso che Mumbai e Istanbul si siano rivelate così attraenti. Con le loro trame di sviluppo informale e la dinamica globale delle loro economie in rapida crescita, incarnano l’essenza di una metropoli mondiale, con i suoi estremi di ricchezza e povertà, grandiosità e squallore, densità e complessità, sfide e potenzialità. Anche solo riuscire a cogliere queste differenze e ragionare su come intervenirci, mi sembra che sia un esercizio didattico molto meritorio.

4. Bilancio dei progetti

FG: Prima di concludere voglio fare qualche considerazione sull’Italia ispirata all’ottimismo, anche se su uno sfondo pessimistico. L’ottimismo sta nel fatto che la metà italiana della produzione è perfettamente in grado di reggere il confronto internazionale, anzi. E’ tutto merito naturalmente degli studenti e dei docenti. Purtroppo, nelle facoltà italiane c’è una separazione talmente profonda tra le elite e la massa, che rende le scuole di fatto prive di identità se prese nell’insieme. E’ per questo che dovendo invitare una facoltà straniera, potevamo chiamare il Dean, con una relativa tranquillità. Per le facoltà italiane invece sceglievamo il professore coordinatore. E del resto ciò trova conferma nello scarto generazionale. Gli omologhi per età e biografia dei coordinatori italiani, nelle facoltà degli altri paesi erano i presidi. E questo ha infine una conseguenza nel retaggio accademico persino dei migliori docenti italiani che (con poche eccezioni), non riuscivano a vedere il lavoro del workshop che come un proprio progetto, invece che un risultato dell’intelligenza collettiva degli studenti.

RB: Come per ogni cosa nella vita, è meglio quando le decisioni non sono in mano ai burocrati, e le istituzioni italiane hanno sofferto fin troppo a lungo di questa situazione difficile. Ma, come tu dici, le risorse formali e intellettuali di docenti e studenti non sono seconde a nessuno, e perciò condivido il tuo ottimismo, ma rimango preoccupato da una forma di “politicizzazione” dell’università in cui la proprietà e più importante del contenuto.

FG: Per quanto sia riduttivo, erano stati definiti tre atteggiamenti per raggruppare i progetti e organizzare la discussione nel seminario.
1. Understanding Cities - per chi cercava soprattutto di capire i fenomeni e restituirne la descrizione. Il titolo deriva da una discussione avvenuta in settembre tra Rem Koolhaas e Jacques Herzog, in cui il primo cercava di dimostrare che il suo “Understanding” (Dubai) è del tutto diverso da “Learning from” (Las Vegas).
2. Defining Urban Strategies - per chi intendeva continuare ad esplorare una o l’altra delle forme del progetto urbano, con un carattere anche modellistico o di prototipo.
3. Architecture has the last word - per chi risolveva nel progetto specifico di un sito specifico, basato su un programma specifico - ancorché auto-generato - la propria volontà di portare un contributo.


RB: Per quello che ho detto più sopra, non penso che si possa fare una di queste cose senza capire le altre. I contributi più forti al workshop erano quelli che si muovevano verticalmente attraverso i tre temi. Da questo punto di vista è esemplare il progetto del Politecnico di Torino su Mumbai. E per questo la Giuria composta, oltre che da me, da Zaha Hadid, Anthony Gormley, sua altezza Amin Aga Kahn e Richard Sennett, gli ha attribuito il premio.

FG: In definitiva bisogna lasciare la parola ai progetti; la qualità assoluta delle cose prodotte è stata straordinaria. Praticamente in nessun caso si è trattato di una rassegna di elaborati didattici, ma piuttosto di lavori di ricerca ben coordinati, basati su premesse molto differenziate, ma originali.
Per necessità di sintesi, voglio citare un quartetto di progetti che permette di capire che irriverenza e concretezza ci sono entrambe indispensabili, e che sono appannaggio di gruppi collocati in luoghi molto diversi del mondo. Inoltre, ciascuno dei quattro rimane caratteristico dell’atteggiamento culturale del proprio paese. Al realismo del progetto veneziano su Istanbul, si può contrapporre l’esilarante telenovela del Royal College of Art di Londra su San Paolo; hanno in comune un gusto per la cosa ben fatta che le avvicina al di la dell’atteggiamento opposto. Così come è profondamente simpatetico il modo in cui il team della Tsinghua University progetta senza complessi New York, a partire da filosofia e paradigmi culturali cinese. Ma non meno simpatetico è il modo in cui il team di Siracusa scopre al Cairo un tema della riparazione urbana che ha molte possibilità di essere utile alle più ricche, ma talvolta informali città italiane.


RB: La tua sintesi del perché questi progetti sono interessanti, in un certo senso dice tutto. Learning from Cities è un modello esemplare di insegnamento e apprendimento che giustifica il suo titolo. Penso che l’abilità degli studenti nell’impegnarsi in una ricerca vera (fattuale, statistica, ma anche basata sull’esperienza, e personale), come pre-condizione dello sviluppo di soluzioni spaziali, ha contribuito a creare una maggiore chiarezza su quali problemi cercavano di risolvere con la loro architettura: un messaggio che spero li accompagnerà nelle loro carriere come costruttori di città, architetti e superstar.


english





  postmedia books