Giuseppe Santonocito / Domus / luglio-agosto 2008

Non è semplice scrivere di filosofia a partire dall'arte. Ancora più difficile è sottrarre un testo di carattere estetico all'ipoteca della critica d'arte o, all'estremo opposto, alla ricaduta nella filosofia dell'arte. Con Cronologia Daniel Birnbaum è riuscito nell'impresa di comporre un vero 'trattato' di estetica contemporanea, una piccola gemma di saggistica che va a collocarsi nel punto cieco in cui si intersecano il pensiero filosofico e il pensiero dell'arte. D'altra parte il curriculum del neo curatore della 53. Biennale di Arti Visive di Venezia ha tutte le carte in regola per regalarci esperienze di lettura di questo genere.
Di formazione filosofica (si è occupato e ha tradotto testi di Husserl e Heidegger) Birnbaum diventa poco più che trentenne Rettore della Staedelschule di Francoforte (2001) e direttore della Galleria Portikus. Nel 2003 è co-curatore della 50. Biennale di Venezia e nel 2005 della 1. Biennale di Mosca. Oltre ad innumerevoli curatele, i suoi interventi sull'arte contemporanea appaiono puntualmente su Artforum, Parkett e Frieze.

L'arte pensa, dunque. Lo diceva Derrida. Lo dicevano anche Guattari e Deleuze, quando affermavano che "la fenomenologia ha bisogno dell'arte". Se di fronte ai problemi fondamentali non ci si geographipuò più affidare alle grandi narrazioni allora, necessariamente, l'unica via d'uscita conduce alla ricerca di lessici nuovi, di prospettive oblique da guadagnare come punti di osservazione differenti. La via dell'arte è uno di questi punti di vista, e spesso i più importanti filosofi contemporanei si sono affidati ad essa per tentare di scardinare il nocciolo ottuso dei fenomeni. Il riconoscimento di un pensiero dell'arte, da intendersi come genitivo soggettivo, cioè di un'arte che si fa pensiero differito e che si interroga sulle questioni ultime, è alla base dell'impianto filosofico usato Birnbaum per il suo Cronologia.
Attraverso le opere di alcuni tra i più importanti protagonisti dell'attuale scena della video-arte: Stan Douglas, Eija-Liisa Athila, Doug Aitken, Philippe Parreno, Tobias Rehberger, Paul Chan e molti altri ancora, il testo di Birnbaum pone domande importanti sul tempo e sull'identità, problemi filosofici per eccellenza.
Possiamo ancora parlare del tempo come di una dimensione omogenea, come flusso di una coscienza che accumula il presente, le ritensioni del passato e le protensioni verso il futuro? Oppure, di fronte alle nuove forme di percezione, legate agli strati temporali sempre più complessi prodotti dalle tecnologie, occorre riconsiderare i paradigmi della temporalità e della soggettività, domandandoci, con Deleuze, se siamo alle soglie di nuove formule di esistenza?
In questo senso, il ruolo delle immagini video, che presentano modi di apparire di un tempo altro, è un analogo dell'atteggiamento fenomenologico, poiché lascia emergere "la dialettica dell'essere umano e del suo senso nell'ambito globale" (p. 78), chiedendosi al contempo se è sparito il soggetto e chi, o cosa, ne prenderà il suo posto. Davanti a questa domanda, gli artisti presi in considerazione da Birnbaum avanzano due categorie di risposte differenti: c'è chi, come Pierre Huyghe, Tacita Dean o Stan Douglas, rappresenta il lutto di un soggetto fratturato, elaborando i labirinti di uno sguardo malinconico. Altri invece, fra cui Doug Aitken e Philippe Parreno, accettano la sfida del tempo nuovo. Il loro obiettivo non è "scoprire cosa siamo, ma rifiutare ciò che siamo": il senso delle loro immagini sullo schermo è legato alla percezione di una nuova piega temporale, all'intuizione di "forme di vita che devono ancora arrivare" (p. 82).
Si tratta di immagini di tempo che non corrispondono più al chronos, al tempo interno del soggetto, ma, come nel caso di Paul Chan, a cui Birnbaum dedica l'appendice del saggio, di un tempo estrinseco, di un kairos che conduce a un concetto del tutto diverso di percezione della temporalità. Qui, afferma Birnbaum, si sperimenta una soglia, un tempo messianico che "si contrae e va verso la sua fine" (Agamben), che 'implode' nella finita temporalità di un eterno ritorno.

(la recensione in inglese)



Marco Enrico Giacomelli / Exibart / 6-2008

Naturalmente s’è già molto scritto a proposito di Daniel Birnbaum, anche in Italia ora che si appresta a dirigere la Biennale di Venezia e la Triennale torinese. Nato a Stoccolma nel 1963, ha un curriculum innanzitutto filosofico, brillantemente “applicato” all’arte contemporanea, che si tratti di curare rassegne o spazi espositivi, insegnare o riflettere in forma simposiale e sulla carta. Traduttore pare di ottimo livello dal tedesco allo svedese di testi ormai classici della filosofia (Husserl e Heidegger, per citare due soli esempi), ha suggellato il proprio corso di studi con una tesi di dottorato, The Hospitality of Presence, pubblicata nel 1998 (del 2008 è la nuova edizione) e dedicata ai Problemi dell’alterità nella fenomenologia di Husserl.
È proprio il pensiero husserliano a costituire ancor oggi il nerbo delle sue riflessioni sull’arte. Certo, si tratta d’una fenomenologia “riveduta e corretta” grazie al contributo di pensatori successivi, francesi in primis. Ma ciò che resta è almeno l’idea della filosofia come scienza rigorosa, per citare un libello dello stesso Husserl, che non s’annacqua nei vaticini di un’argomentazione spesso caricaturale.
Detto ciò, si potrebbe utilizzare cinicamente come spunto il “coccodrillo” dedicato a Harald Szeemann, pubblicato da Birnbaum su “Artforum” nel giugno del 2005. Si apre col più classico dei tributi, ossia Szeemann come capostipite del curatore moderno, quello in linea di principio indipendente, ma che non disdegna sponsorizzazioni; colui che diviene “egli stesso un artista” o, meglio, “meta-artista”. Daniel Birnbaum ritratto da Wolfgang TillmansMa Birnbaum non manca di rilevare, al di là della retorica in memoriam, che operazioni per certi versi simili avvenivano anche altrove, a New York per esempio, grazie all’opera dell’artista-curatore Seth Siegelaub. E se cita Inszenieren ist Lieben come “un documento canonico per la curatela contemporanea”, lo svedese non omette di segnalare quanto lo stesso Szeemann “non fosse un teorico significativo”.
Sicurezza e non sicumera che Birnbaum trae pure dall’aver pubblicato nello stesso anno quello che, finora, resta il suo unico saggio corposo in forma di libro dedicato all’arte contemporanea, ossia Chronology, disponibile in italiano nel raffinato catalogo di Postmedia Books e ben tradotto da Anna Simone.
Di cosa tratta il volume? Un primo indizio è fornito dalla Risposta di Birnbaum a Paolo Virno contenuta negli atti, pubblicati dall’editore Sternberg, delle tre sessioni della conferenza Under Pressure, tenutasi nel 2006-2007 all’Institut für Kunstkritik di Francoforte, fondato nel 2003 dallo stesso Birnbaum insieme a Isabelle Graw. Un centro studi che nasce dall’idea che la situazione della critica d’arte non sia così catastrofica come sembra: “Poiché le competenze della critica sono state progressivamente ampliate, è ora emerso un nuovo profilo per il critico”. Al punto che, paradossalmente, si potrebbe parlare “di tutto tranne che dell’opera d’arte”.
Provocazione, forse, sviluppata pure in Thinking Worlds, libro che raccoglie gli atti di un simposio tenutosi in occasione della seconda Biennale moscovita, con interventi firmati da intellettuali come Bernard Stiegler, Saskia Sassen, Chantal Mouffe e Giorgio Agamben. L’idea di fondo consisteva nel mettere in relazione tre topic: “Il senso e la finalità dell’‘evento’ nella cultura artistica contemporanea, le riflessioni circa lo status della filosofia e della teoria estetica e quelle relative al significato politico degli interventi artistici” (l’intervento di Birnbaum, scritto a quattro mani con Sven-Olov Wallenstein, era intitolato Thinking Philosophy, Spatially: Jean-François Lyotard’s Les Immatériaux and the Philosophy of the Exhibition).
Ma su cosa si concentrava la risposta a Virno? Sulle “riflessioni più recenti concernenti le nuove costruzioni del sé”. Il medesimo perno incardina Chronology, un libro che per l’appunto parla del tempo, nella convinzione che “la genealogia del soggetto è sempre anche una cronologia”. E lo fa analizzando opere come Der Sandmann di Stan Douglas, con la sua fessura-sincope che divide le due proiezioni, “illustrando” - o, meglio, producendo - l’“azione in differita” che Freud chiamava Nachträglichkeit. In altre parole, l’infinita costituzione del sé. Joseph Backstein, Daniel Birnbaum, Sven-Olov Wallenstein (eds.) - Thinking WorldsSe dunque quella della fenomenologia trascendentale resta per Birnbaum la più “sofisticata e persuasiva” riflessione sulla soggettività, nondimeno essa appartiene a una concezione tradizionale. Non è per ciò sufficiente la metafora husserliana del flusso temporale e nemmeno quella bergsoniana-deleuziana del cristallo. Sono figure retoriche cinematografiche, come l’Ellipse analizzata da Pierre Huyghe.
Qualcosa di differente può e deve dirlo l’“altro cinema”, la video-arte, visualizzando tempi (narrativamente) polifonici, che non si esauriscono certo nella successione di passato, presente e futuro; proiettandosi al di là della linearità ma pure della singolarità di queste scansioni e del soggetto che le percepisce. L’esito non è però necessariamente la psicosi, come in The House di Eija-Lisa Ahtila, e neppure l’irritante eloquenza mitopoietica di un Matthew Barney. Lo dimostrano opere come electric earth di Doug Aitken e pure esperimenti più datati come Opposing Mirrors and Video Monitors on Time Delay del 1974 di Dan Graham.
Il punto, però, a parere di Birnbaum, concerne la possibilità e la volontà di guardare al futuro. Di produrre “un’arte di anticipazione ed emergenza”, come in El sueño de una cosa di Philippe Parreno o, in un senso differente, in Moonsoon (1995) di Aitken. Un atteggiamento, se si potesse dire, opposto a quello di artisti come Tacita Dean o a critici come Benjamin Buchloh: “Un approccio troppo marcatamente nostalgico [...] in definitiva capace solo di riprodurre forme consuete di soggettivazione e, quindi, inutile”.
In sintesi, “il tempo lineare non è né una realtà né un concetto, è una brutta abitudine”, afferma Paul Chan. Il prossimo libro di Birnbaum si intitolerà allora kairologia? E a Venezia vedremo una Biennale escatologica? L’obsoleto datario c’impone l’attesa per qualche mese ancora.



Paola Noè / Label / 10-2007

Prezioso come sempre il lavoro di traduzione e pubblicazione che la casa editrice milanese Postmedia sta portando avanti da anni in Italia con i più interessanti testi di teoria dedicati all’arte contemporanea. È la volta di Cronologia di Daniel Birnbaum, edito due anni fa in lingua inglese per i tipi della Sternberg Press di New York – ripubblicato quest’anno con l’aggiunta del nuovo progetto firmato Paul Chan –, e appena uscito in traduzione italiana lo scorso ottobre – ma già tradotto in francese, tedesco e russo.
Si tratta di un breve ma puntualissimo saggio filosofico che ha per oggetto d’indagine il tempo e il suo utilizzo nei video e film realizzati da artisti contemporanei come Stan Douglas, Eija-Liisa Ahtila, Doug Aitken, Dominique Gonzalez-Foerster, Tacita Dean, Darren Almond, Tobias Rehberger, Pierre Huyghe, Philippe Parreno e Paul Chan. L’autore sviscera la problematica nei dodici capitoli che compongono il saggio, analizzando minuziosamente e proponendo inedite analisi di specifici lavori in cui gli artisti hanno messo in scena in un modo o nell’altro diverse modalità di catturare il tempo nelle sue varie declinazioni, con un apparato straordinario di citazioni e rimandi puntuali alla storia della filosofia, del cinema, e della letteratura. Attraverso le opere di artisti ormai star nel panorama dell’arte contemporanea, Birnbaum riprende il problema che Gilles Deleuze aveva cercato di studiare e risolvere per quanto riguardava il cinema del dopoguerra.



Mariangela Maritato / Arslife / 8-2008

In Italia si appresta a dirigere la Biennale di Venezia e la Triennale torinese. Daniel Birnbaum, nato a Stoccolma nel 1963, curatore dal curriculum innanzitutto filosofico brillantemente “applicato” all’arte contemporanea, che si tratti di curare rassegne o spazi espositivi, insegnare o riflettere in forma simposiale o scritta, ha oramai delle date certe da rispettare. (...)
Certo è che le sue scelte saranno – e sono – il riflesso di un pensiero che affonda radici in quello “husserliano”. In una fenomenologia che guarda alla filosofia come scienza rigorosa. Perché Birnbaum è prima di tutto un filosofo. Un fenomenologo dell’arte. La sua concezione sull’arte la troviamo sintetizzata nell’unico unico saggio corposo che ha scritto dedicato all’argomento, ossia Chronology, disponibile in italiano nel raffinato catalogo di Postmedia Books e ben tradotto da Anna Simone.

Le “riflessioni più recenti concernenti le nuove costruzioni del sé” rappresentano il perno di Chronology, un libro che per parla del tempo, nella convinzione che “la genealogia del soggetto è sempre anche una cronologia”. E lo fa analizzando opere come Der Sandmann di Stan Douglas, con la sua fessura-sincope che divide le due proiezioni, “illustrando” - o, meglio, producendo – l’ azione in differita che Freud chiamava Nachträglichkeit. In altre parole, l’infinita costituzione del sé. Se dunque quella della fenomenologia trascendentale resta per Birnbaum la più “sofisticata e persuasiva” riflessione sulla soggettività, essa appartiene tuttavia ad una concezione tradizionale.
Qualcosa di differente può e deve dirlo l’ “altro cinema”, la video-arte, visualizzando tempi (narrativamente) polifonici, che non si esauriscono nella successione di passato, presente e futuro; proiettandosi al di là della linearità ma pure della singolarità di queste scansioni e del soggetto che le percepisce. L’esito non è però necessariamente la psicosi, come in The House di Eija-Lisa Ahtila, e neppure l’irritante eloquenza mitopoietica di un Matthew Barney. Lo dimostrano opere come electric earth di Doug Aitken e pure esperimenti più datati come Opposing Mirrors and Video Monitors on Time Delay del 1974 di Dan Graham.
Il punto, però, a parere di Birnbaum, concerne la possibilità e la volontà di guardare al futuro. Di produrre “un’arte di anticipazione ed emergenza”, come in El sueño de una cosa di Philippe Parreno o, in un senso differente, in Moonsoon (1995) di Aitken. Un atteggiamento antitetico a quello di artisti come Tacita Dean o a critici come Benjamin Buchloh: “Un approccio troppo marcatamente nostalgico [...] in definitiva capace solo di riprodurre forme consuete di soggettivazione e, quindi, inutile”.
In sintesi, come afferma Paul Chan, “il tempo lineare non è né una realtà né un concetto. E’ solo una brutta abitudine”.


 
 

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