Anna Del Regno / Segno n.203 / 07-2005

La pubblicazione in italiano, per la prima volta, di questo saggio di Rosalind Krauss è di certo un evento degno di nota. Trascrizione della Walter Neurath Memorial Lecture del 1999, “L’arte nell’era postmediale” è uno di quei testi che sono entrati presto nella leggenda: tutti ne hanno sentito parlare, ma solo pochi fortunati finora ne hanno avuto una copia tra le mani. Il libro, nonostante la brevità, è un largo ed intricato spettro teorico fatto di osservazioni originali e provocatorie in cui Krauss, co-fondatore e co-direttore della rivista October, veterana di Artforum negli anni 60 e 70, esamina l’intersezione degli interessi artistici con la cultura visiva attuale. Attraverso l’esempio dell’opera dell’artista belga Marcel Broodthaers e in aperto contrasto con quella tradizione critica americana che tentava di definire l’arte contemporanea secondo sacri comandamenti e verità totalizzanti, Krauss sostiene che oggi la specificità mediale non può essere limitata alla fisicità del supporto. Krauss supera il desiderio modernista di purezza teorizzato da Greenberg, per delineare le forme dell’arte attuale, l’arte dell’età postmediale. E sostiene che mentre continua ad esistere una spinta verso forme pure, queste si sono evolute secondo linee che divergono radicalmente da ogni ricerca univoca. Il mezzo oggi non può essere considerato che il frutto di relazioni differenti, mai riducibili alla pura materialità: una complessa serie di convenzioni, specifiche nella loro stratificazione. Krauss traccia tre linee narrative per contestualizzare storicamente l’età postmediale, cominciando dall’ascesa dell’arte concettuale. Cita il paradosso dell’arte astratta, che tentava di formulare un nuovo reame artistico puro, separato, e il tentativo degli artisti concettuali i quali piuttosto che negare i nuovi dettati della società dei consumi flirtavano con la mercificazione, sperando di sfuggire alla rete dei modelli produttivi del capitalismo lavorando dall’interno. L’esempio di Marcel Broodthaers è il cardine su cui ruota l’analisi di queste tendenze, visto come figura centrale e contemporaneamente fautore della condizione postmediale. Rosalind Krauss enfatizza il crescente senso di eterogeneità mediale, che impedisce la precedente percezione di interezza e purezza del discorso artistico, attraverso altri due esempi: da una parte la televisione, mezzo in cui il nucleo artistico non diminuisce con l’ampio raggio spaziale e temporale di attività eterogenee che coinvolge. Dall’altra la teoria poststrutturalista di Derrida che pone la costituzione dell’individuo come il risultato dell’influenza esercitata dall’esterno, incentrata su concetti di interdipendenza e intermediazione. Le ragioni per cui Krauss fa riferimento a Broodthaers sono chiare: la comprensione del paradosso postmediale permette a questo artista di ingaggiarsi in una redenzione dell’arte che sembra essere resa indistinta dalla stessa postmedialità. L’attrazione di Broodthaers per le forme obsolete, come le tecniche del cinema delle origini, e il riconoscimento della natura aggregativa del film, rendono l’elemento di fiction che è al centro della sua produzione un modo per rivelare cosa è nascosto, la dipendenza del reale da successive stratificazioni piuttosto che l’esistenza di una solida unità fondativa. Secondo Rosalind Krauss, Broodthaers mette in scena questa rivelazione attraverso la revisione poetica di Charles Baudelaire e il film “A Voyage to the North Sea”, in entrambi i quali crea un viaggio attraverso gli strati successivi che compongono i rispettivi media (letteralmente le pagine del libro, le inquadrature del film). La finzione descrive “l’impossibile tentativo di trasformare la successione in qualcosa di statico, o una catena di parti in un tutto”, come un tentativo di reclamare l’interezza dell’originale, del fuori moda. Collocando le origini di questa pratica in Marcel Broodthaers, Krauss teorizza una nuova “specificità differenziale”, un concetto che riconosce e articola le complessità del postmediale attraverso una contemplazione delle forme obsolete che combina. E stabilisce un nuovo campo artistico che riformula le nozioni di arte, teoria dell’arte e estetica coinvolte, ma non indistinguibili, nella società capitalista.

 
  Marco Belpoliti / La Stampa / 26-11-2005

IL NUOVO MEDIUM SENZA CONFINI
GLI SCRITTI DELLA CRITICA ROSALIND KRAUSS: L'ARTE NON è INTRATTENIMENTO O ESTETICA, NON è MERCATO O PIACERE, MA PRATICA SOVVERSIVA OLTRE LE TRADIZIONALI DIVISIONI
Tra la fine degli Anni Sessanta e l'inizio degli Anni Settanta un gruppo di artisti composto da Richard Serra, Robert Smithson, Carl Andre e altri, sedeva nel buio di una sala cinematografica di Soho, a New York, dove Jonas Mekas proiettava a ciclo continuo i film delle avanguardie russe e francesi, documentari del muto inglese, le prime visioni del cinema indipendente  americano, i film di Chaplin e di Buster Keaton. Si può dire che in quei lunghi pomeriggi all'Anthology Film Archives stesse incubando una piccola rivoluzione dell'arte americana, quella che porterà di lì a poco alla fine del modernismo dominato da Clement Greenberg, il padre della critica d'arte americana.
Seguendo i film di Michael Snow o Hollis Frampton, Serra, Smithson e Andre cercavano di andare oltre l'idea dell'opera bidimensionale proposta da Greenberg. Wavelenght, il film di Snow, consisteva in una unica zoommata della durata di 45 minuti. Come racconta Rosalind Krauss, amica e sodale del gruppo, essi erano interessati  “non alla striscia di celluloide delle immagini, né alla cinepresa che filma, né alla proiezione che dà  loro vita in movimento, ma a tutto questo insieme, inclusa la posizione degli spettatori posta tra la sorgente di luce alle spalle e le immagini proiettate davanti ai loro occhi”. In questo racconto c'è  già  la novità  degli anni Ottanta del XX secolo: l'introduzione dello spettatore, e insieme l'idea che il visivo non sia l'unica dimensione dell'opera. Questa arte verrà definita solo successivamente postmoderno, in un equivoco concettuale che da anni Rosalind Krauss, la più significativa critica d'arte americana, cerca di dissipare. In due libri apparsi di recente in Italia, L’arte nell’epoca postmediale e Reinventare il medium, descrive l'arte nell'epoca definita postmediale. Durante gli Anni Sessanta, scrive, l'otticità  era diventa il medium dell'arte.
Quando in quegli anni gli artisti iniziarono a realizzare dei video non provocarono una vera rottura, non scoprirono cioè¨ un nuovo “medium”, sebbene, come comprese Serra, avessero iniziato a frantumare la continuità  spaziale dell'opera; la televisione non è tanto un piccolo cinema, bensì teletrasmissione: la separazione spaziale e insieme la simultaneità  temporale della diffusione istantanea. L'epoca postmediale possiede inoltre un terzo carattere: non esiste qualcosa di “intero” o di “separato” che si chiama “opera d'arte”. Ogni purezza ha avuto termine a vantaggio di un'arte impura. Fluxus, il celebre movimento artistico, è stato questo: l'impurità  dilaga e la divisione tra le arti ha termine. A questa prassi artistica, spiega Krauss, corrisponde la pratica teorica del poststrutturalismo e del decostruttivismo.
Elio Grazioli ha raccolto in Reinventare il medium, un libro che per il momento esiste solo in edizione italiana, gli scritti di Rosalind Krauss degli ultimi sei anni, tesi a definire cosa sia oggi l'arte nella “condizione postmediale”. La critica americana fa partire da Pollock, dal suo dripping, lo sgocciolamento con la tela posta in posizione orizzontale, sul pavimento, l'invenzione di un nuovo “medium” che rompe con la “pittura da cavalletto”. A differenza di quello che credono in tanti, anche nel mondo dell'arte, Krauss non propone l'idea di una nuova avanguardia; non irride la pittura tradizionale in nome della novità , come se l'arte seguisse un inevitabile progresso. Anzi, proprio il contrario. Parlando dell'opera di James Coleman, un artista che lavora con la proiezione delle diapositive, che abbiamo visto pochi anni fa al Beaubourg, e di William Kentridge, il sudafricano presente alla Biennale di quest'anno (usa una tecnica di rappresentazione che ricorda il cinema d'animazione, ma non lo è), Rosalind Krauss sostiene che è proprio quando le tecniche diventano obsolete - come nel caso delle diapositive - che nasce un “medium”.
La corsa verso il tecnologico di tanti artisti, la loro ricerca dell'ultimo ritrovato tecnico, non è una condizione sufficiente. L'arte non segue lo sviluppo lineare, darwiniano. Assomiglia piuttosto all'evoluzione punteggiata, per scatti e scarti, descritta dal paleontologo Jack Gould. Essa non può adagiarsi sui media esistenti, sottolinea Grazioli, su quelli che vengono spacciati per tali dal punto di vista sociologico o tecnologico. Non è detto, per esempio, che la Web-art abbia individuato un nuovo “medium”. Coleman proietta diapositive in cui i suoi personaggi parlano tra loro guardando verso gli spettatori, e lo fa in un'epoca in cui anche il più retrogrado di noi ha smesso di infliggere ad amici e parenti la visione delle sue diapo di viaggio. E' l'immobilità  dell'immagine che interessa l'artista americano in cui Krauss vede la riscoperta di quel “senso ottuso” di cui parlava Roland Barthes: il senso del cinema, per il semiologo francese, non è infatti il movimento, bensì il fotogramma che ci fa accedere a quello che lui chiama il “terzo senso”.
La proposta della critica americana è sovversiva; per lei l'arte non è intrattenimento o estetica, non è mercato o piacere, ma appunto pratica sovversiva. Gran parte dei critici in Europa e in Italia si sono arresi al mercato, ne sono i fedeli esecutori. Cercano il nuovo per il nuovo o si adagiano sull'estetico, mentre,  dal canto suo, il sistema dell'arte sfrutta in modo incessante l'idea di “nostalgia” e il remake. Per capire cosa sia l'obsoleto, dove vada l'arte, che ha abbattuto i confini tra cinema e teatro, scultura e grafica, bisogna vedere il ciclo dedicato ad Ada di Nabokov dal gruppo teatrale Fanny & Alexander che sta girando faticosamente per i teatri italiani.  La sovversione non è solo un moto di piazza e l'arte contiene ancora molte sorprese.

  Marcello Carriero / Arte e Critica n.44 / ott-nov 2005

MARCEL BROODTHAERS, AD ESEMPIO
Scritto con la chiarezza che la contraddistingue, questo libro di Rosalind Krauss spiega l’idea dell’arte nell’epoca Post-mediale. La Krauss supera l’assunto di Clement Greenberg di presentazione del mezzo come essenza fondamentale dell’arte, utilizzando il lavoro di Marcel Broodthaers (1924-1976) per definire l’arte post-mediale quale superamento della corrispondenza tra specificità del mezzo e singolarità dell’opera, distinguendo le proprietà materiali del “medium” dalla complessità dell’opera. Dal Museum of Modern Art: Eagles Department, in cui attua il superamento del rebus magrittiano, Broodthaers impersona il curatore ed immette l’opera nel flusso pubblicitario e promozionale. L’opera del 1972 preannuncia indiscutibilmente la politica espositiva a venire. Un sintomo del Post-mediale è anche quello del superamento del film strutturalista con l’uso della videocamera leggera, trasportabile uso che frantuma l’unità spaziale e temporale del cinema. L’esempio di Rosalind Krauss tocca infine l’argomento della doppia negazione dell’arte, indicando nella prassi di Broodthaers quella particolare azione di détournement per cui ogni oggetto all’interno del sistema capitalistico è visto nella sua duplice valenza positiva negativa, nella percezione diretta e della sua immagine a posteriori, di elemento utopico – progettuale e cinico – strategico.

  Stefano Chiodi / Alias n.48 (suppl. Il Manifesto)/ 12-2005

REINVENTARE IL MEDIUM
Le copertine e i risvolti dei libri sono spesso luoghi di sottili strategie di adescamento, di equivoche manipolazioni: il lettore, si sa, non ha tempo, è pigro, si distrae facilmente. Ma se non basta un accattivante paragrafo, o un commento illustre, ecco allora entrare in scena l'autore in persona a perorare la sua causa: un volto, uno sguardo, un cenno della mano. Una fotografia, insomma. A qualsiasi livello, dalla modesta vignetta dell'accademico allo spudorato ritratto della celebrity, la fotografia cerca di stabilire un rapporto esclusivo, di agitare il fantasma di una presenza. E certo poche volte è stata tanto significativa questa miscela di confessione e travestimento come nelle fotografie che Susan Sontag ha collocato strategicamente sui suoi libri, immagini insieme del tutto autocoscienti e studiatamente spontanee, misto di orgoglio e fragilità, di fisicità aggressiva e di malinconia: "Tutto esiste per finire in una fotografia", aveva scritto del resto in uno dei suoi saggi più famosi, compreso, verrebbe da aggiungere, l'io nebuloso dell'autore.
Il potere della fisionomia di spostare ambiguamente l'attenzione dal testo alla "voce", dalle idee alla "vita", è del resto alla base di molti meccanismi di identificazione nella società di massa; non sorprende perciò ritrovare un uso "politico" della propria immagine anche in un'altra figura autorevole della cultura americana degli ultimi trent'anni: Rosalind Epstein Krauss. Storica e critica d'arte, cofondatrice della influente rivista "October", la Krauss ci rivolge uno sguardo duro e indagatore dal retro dei suoi libri, quello di una donna consapevole di aver contribuito a ridisegnare in modo sistematico il profilo della sua disciplina, imponendosi come una delle interpreti più lucide e determinate di quel vasto sommovimento culturale noto col nome di postmoderno.
All'opposto della curiosità irrequieta e sensuale, dello stile idiosincratico, della straordinaria mobilità intellettuale della Sontag, il pensiero di Rosalind Krauss tende a un rigore teorico e concettuale che concede poco spazio all'introspezione e al racconto. E tuttavia, attraverso questa lente così implacabile, anziché affievolirsi, le opere d'arte diventano più pesanti, più grandi: cioè non solo più importanti, ma più serie, più impersonalmente necessarie. In un certo senso per la Krauss un'opera d'arte o è davvero importante o non è nulla. Per riconoscere questa qualità è ovviamente necessario operare un ferreo controllo di coerenza teorica, affinché l'apertura del significante si realizzi sino in fondo, a spese a volte dello stesso artista, che può creativamente soccombere (come Pollock ad esempio, nell'ultima parte della sua carriera) all'improvviso opacizzarsi della sua pratica. L'analisi della Krauss si concentra anzitutto sui sintomi sfuggenti, sulle rimozioni, le impurità, i punti di crisi rilevati a volte anche in un singolo dettaglio – la grana di una fotografia, la finitura di una superficie. Alcuni esempi: la "griglia", individuata come vera e propria struttura soggiacente, spazio-temporale, della modernità artistica; il folgorante parallelismo tra Duchamp e Brancusi, tra la scultura come strategia estetica nel primo e la forma come manifestazione della superficie nel secondo. O l'adozione da Bataille della categoria di informe, vista non come contenuto (la materia degradata, il rifiuto) ma come operazione che mina il logocentrismo occidentale esponendone il rimosso, la parte maledetta. O infine, come elemento chiave della modernità, la nozione semiotica di indice impiegata per comprendere la cruciale alterazione imposta alle pratiche artistiche dall'invenzione della fotografia: l'indice, la traccia, l'impronta, sottraggono l'immagine (ogni immagine) allo stato di rappresentazione, di simbolo, per immetterla nel registro degli eventi concreti, letterali.
Quelli della Krauss sono d'altro canto ragionamenti che procedono con un andamento non lineare, in cui un elemento imprevisto – un frammento teorico, il terzo senso, l'ottuso di Barthes, ad esempio, o l'inconscio ottico di Benjamin – viene sempre usato (e non meramente citato) per forzare il quadro stabilizzato delle interpretazioni. Da un certo punto di vista, il paragone non è forse peregrino, questi momenti di appropriazione creativa assimilano il meccanismo da lei tante volte analizzato del ready-made, visto come processo che per così dire sorprende il reale nel suo stesso farsi attraverso un procedimento dialettico, stipulativo. È l'autrice stessa a fornirci una definizione di questo metodo: è il 'fraintendimento' o misreading, una "perversa ma molto accorta comprensione profonda, che libera dall'interno dell'opera... un potenziale (spesso anarchico o trasgressivo) rimasto nascosto od offuscato". La deflagrazione critica è così in ultima analisi il risultato di un'apertura dialettica che scopre dentro i suoi oggetti di indagine una pluralità, una insospettata disomogeneità. Con la ricchezza metodologica e l'originalità che lo contraddistingue, il più che trentennale percorso critico di Rosalind Krauss è ormai apprezzabile in tutta la sua consistenza anche nel nostro paese. Di questa attenzione è prova la recente pubblicazione di due volumi, Reinventare il medium (a cura di Elio Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 151, euro 22,00) e L'arte nell'epoca postmediale (Postmedia Books, Milano 2005, pp. 64, euro 14,50), composti di testi scritti dopo il 1999, dove ancora una volta, e qui sta un aspetto determinante dello stile intellettuale dell'autrice, ritroviamo all'opera la sua concezione della critica e della teoria dell'arte come aspetti della medesima attività. Qui posta al servizio di una serrata discussione sulla condizione post-medium dell'arte più attuale condotta come sempre attraverso esempi al tempo stesso illuminanti e perentori: i percorsi di Marcel Broodthaers, di James Coleman e William Kentridge, di cui l'autrice ricostruisce originalmente le fisionomie creative, iscrivendole in un percorso problematico e usandole soprattutto per compiere un ulteriore approfondimento dei caratteri della pratica artistica contemporanea.
Il medium di cui parla la Krauss non è semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere. Medium è un insieme di regole, una "matrice generativa" di convenzioni derivate (ma non identiche) dalle condizioni materiali, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all'artista. Così, ad esempio, per Jackson Pollock l'orizzontalità è non solo il presupposto che permette il dripping, la colatura del colore sulla tela stesa a terra, ma un medium a tutti gli effetti, un "vettore fenomenologico" che apre una nuova dimensione nell'esperienza del pittore e quindi una diversa intenzionalità. Abbandonare la pittura 'da cavalletto' diventa così per l'artista americano l'occasione per ribaltare le secolari convenzioni figurative legate alla verticalità del quadro, alla sua natura puramente ottica. Contro l'idea storicista di 'progresso' in arte, contro la facile infatuazione per le tecnologie, per i 'nuovi' media, la Krauss stabilisce poi un fondamentale collegamento tra obsolescenza di una tecnica e la sua assunzione come medium artistico: è infatti l'essere 'fuori moda', come già aveva suggerito Benjamin, ad aprire a una forma espressiva la possibilità di essere rifondata come medium. L'esempio della fotografia è in questo senso eloquente: il suo affermarsi nelle pratiche artistiche è contemporaneo al venir meno dell'idea di specificità e al diffondersi delle pratiche concettuali che guardano all'arte come a un'attività 'indifferente' ai mezzi impiegati. Lo stesso può dirsi delle proiezioni di diapositive di Coleman o dei disegni continuamente cancellati con cui Kentridge realizza le sue animazioni. Non si tratta, come chiarisce Elio Grazioli nell'introduzione a Reinventare il medium, del recupero nostalgico o regressivo di tecniche desuete: è nel fuori moda, nell'obsoleto che si apre la possibilità di reinventare, che appare il "germe dialettico" del rinnovamento.
La voce della Krauss ci ricorda così che nel suo nucleo più ostinato l'arte è sovversione, sfida, individuazione di alternative. E quindi anche violazione di divieti, scavalcamento che riporta in luce quanto era stato represso o rimosso e istituisce corrispondenze inattese tra percezione e pensiero. Forse la lezione più decisiva del suo percorso intellettuale è aver mostrato come la critica partecipi attivamente a questo processo di costante reinvenzione del mondo, di distruzione e ricomposizione del suo ordine, della sua praticabilità. Le conclusioni cui giunge possono essere discusse, ma la sostanza del suo metodo seguita ad additare una possibilità fondamentale del discorso critico: quello di farsi strumento di comprensione dei fenomeni artistici nella loro qualità dialettica originaria, stringendo insieme il loro aspetto materiale e il loro retroterra antropologico. In questa prospettiva, politica quanto filosofica, Rosalind Krauss mira a destabilizzare, insieme alla sensibilità, le nostre abitudini di pensiero.