tina modotti

dalla postfazione di Roberta Valtorta


Ogni vita merita di essere raccontata, ma alcune vite, una volta compiutesi, premono perché questo accada: per un fascinoso meccanismo di necessità sopravvivono a se stesse e divengono materia letteraria o, anche, cinematografica, come se solo nel racconto di altri potessero finalmente conquistare quel pieno significato al quale, nel loro svolgersi, aspiravano. La vita di Tina Modotti è, notoriamente, fra queste: eppure questa donna – noi percepiamo nel sovrapporsi dei dati della storia e degli elementi dell'immaginazione – fece di tutto, cosciente o istintivo che fosse di volta in volta il modo, per dare alla sua esistenza un significato immediato, forte e percepibile anche a se stessa. “Desiderosa di dare un senso alla propria vita e di capire quale fosse il proprio posto nel mondo”, come scrive Patricia Albers, autrice di questa puntigliosa biografia, Tina (che ci costringe da lontano a chiamarla per nome) interpretò se stessa nei molti modi possibili che trovò lungo la sua strada e fece di tutto perché la sua vita fosse vita e fosse sua al punto da poterla donare: ne diede dunque rappresentazione e la sottopose a trasformazioni tali che altri potessero in seguito raccontarla e darne ulteriori rappresentazioni, a cascata.

La storia di Tina Modotti, questa storia del Novecento che Patricia Albers sceglie e costruisce attraverso una fitta addizione di documenti legati insieme dalla partecipazione emotiva, si chiude simbolicamente con una frase famosa che troviamo in una lettera scritta a Edward Weston nel 1926, una delle molte in nove anni di assidua corrispondenza: “accetto il tragico conflitto tra la vita che cambia continuamente e la forma che la fissa immutabilmente”. (...)

Negli anni del suo legame con Weston, scrive Patricia Albers, “lei parlava del disordine della vita e lui della purezza della fotografia”, ed egli le propose di “risolvere il problema della vita perdendosi nel problema dell'arte”, questione alla quale Tina avrebbe in seguito risposto, con apprensione tutta femminile: “Non solo non posso farlo, ma sento anche che il problema della vita ostacola il problema dell'arte (...) nel mio caso la vita lotta costantemente per predominare e l'arte, naturalmente, ne risente”, traducendo poi in pratica questo pensiero non solo con una presa di distanza dall'arte per l'arte ma anteponendo infine a tutto, fotografia d'arte o fotografia sociale, la disciplina della pratica politica.

Dalla analisi di questa biografia, nella quale l'autrice si rivela particolarmente sensibile alle vicende sentimentali della protagonista, nasce però una interessante ipotesi di lettura – che qui vorremmo sottolineare –, che ci viene ampiamente, e non sappiamo quanto volontariamente, suggerita dalla Albers: che la Modotti abbia insistentemente e sempre intensamente seguito la via dell'arte, che anzi abbia incarnato nelle diverse “figure” che interpretò e assunse dentro di sé e sul suo stesso corpo (segnate da passione, felicità, creatività, scelta della fotografia, devozione alla causa della rivoluzione, sottomissione al credo politico, disillusione, silenzio, rovina, morte) sempre e comunque quella di una artista. (....)

E a questo proposito va osservata la cura particolare con la quale Patricia Albers (anche osservando immagini fotografiche) ci informa costantemente degli abiti che Tina elegantemente indossa e del mutare del suo aspetto fisico di esperienza in esperienza: la Modotti è una sorta di oggetto d'arte, “è un fiore raro” quando Robo la nutre di cultura e la plasma fra stoffe, colori, abiti orientaleggianti; è una donna in nero alla sua morte; porta sempre nuovi abiti molto femminili, trucchi, pettinature nelle feste e nelle riunioni con gli artisti a Città del Messico, oppure, anche, camicie di seta a collo alto e cravatte maschili; è il suo nudo corpo quando posa per Edward Weston fotografo e per Diego Rivera pittore; si scambia i vestiti con Edward, in una vicendevole imitazione; è una comunista in camicia da operaio e ampie gonne a campana quando è la compagna di Julio Antonio Mella; poi, vera militante, non porta più trucco e veste una pesante tuta blu; indossa gli abiti tipici delle donne Tehuana poco prima di lasciare il Messico; assume quindi quasi l'aspetto di una suora nella clandestinità politica con Vittorio Vidali, di una dolente “Madonna rivoluzionaria” senza pace; porta infine su di sé “un'aura di dolore silenzioso e dignità” nei suoi ultimi momenti. E anche il suo cuore, insieme al suo corpo, si veste e si scolpisce in questi molti modi fino all'oscura morte carica di solitudine.

Roberta Valtorta



 
  postmedia books