Civil Imagination
Ontologia politica della fotografia
Ariella Azoulay


postmedia books dicembre 2016
256 pp. 96 ill.
isbn 9788874901661

La donna ritratta nella pagina a fianco, Aisha-al-Kurd, è l'interlocutore esplicito, e al tempo stesso implicito, di questo libro (l'autrice si riferisce alla foto di copertina di Micha Kirshner). Non l'ho mai incontrata di persona, eppure ha accompagnato i miei pensieri fin dal primo istante in cui ho visto la foto. Nel 1988 Aisha e il marito (del quale ignoro il nome), genitori di cinque figli, sono stati tenuti prigionieri per mesi dalle autorità israeliane in detenzione amministrativa, mentre la loro casa veniva demolita. Quando mi imbattei nel foto-ritratto, verso la fine degli anni ottanta, lo lessi erroneamente come un esempio dell'"estetizzazione della sofferenza", e che questo fosse il contributo creativo del fotografo Micha Kirshner. Allora ero convinta che la mia posizione analitica nei confronti dell'estetizzazione della sofferenza fosse profondamente critica. Fu solo più tardi che mi resi conto della trappola insita in quella presa di posizione: una trappola – consistente ad esempio nell'abitudine a contrapporre estetica e politica – che era già a quei tempi motivo di preoccupazione, ma che solo gradualmente rivelava il suo vero aspetto e la visione del mondo che andava a costruire. Questo volume è un'indagine minuziosa sull'errore di fondo che mi tradì a quell'epoca, ma anche un tentativo, parallelamente, di ripensare la categoria del "politico", con i suoi limiti e le sue specificazioni, e di fare spazio all'emergere di una categoria diversa, quella del "civile". I miei successivi incontri con Aisha-al-Kurd nel corso degli anni, incontri che esistono solo dietro il sipario dell'immaginazione, riflettono i cambiamenti nel mio pensiero a proposito di fotografia, di sfera politica, di cittadinanza. A partire dalla sua foto, e da quelle di altri individui, questo libro cerca di immaginare un discorso civile in un clima di devastazioni di regime. Sotto tali condizioni la cittadinanza è limitata ad una serie di privilegi di cui solo una parte della popolazione controllata dal governo può godere, peraltro in modo tutt'altro che equo. Il diritto fondamentale riservato a questo gruppo di privilegiati consiste nella possibilità di guardare la sciagura, di esserne spettatori. Sul piatto non c'è il piacere potenzialmente legato all'atto spettatoriale, bensì l'atto stesso, riservato ai privilegiati detentori di diritti civili, i quali possono osservare il disastro da una posizione relativamente sicura, mentre coloro che essi osservano appartengono a una differente categoria di soggetti, costituita dalle persone che possono subire la sciagura e pertanto essere guardate nell'atto di sopravvivere in condizioni disastrate. Lo scandalo legato al ritratto di Aisha al-Kurd non risiede nella foto in sé, nel suo valore estetico (una bellezza che sembra trascendere qualsiasi questione di gusto) o in alcuna delle sue proprietà discernibili. Lo scandalo sta nel fatto che la casa di Aisha al-Kurd fu, e rimane tuttora, vulnerabile all'invasione violenta di cittadini israeliani in uniforme, e che per di più resta permeabile agli sguardi di coloro che osservano la sua sofferenza, ossia di quei cittadini privilegiati che non vedono la sua condizione come propriamente disastrata, o meglio che la vedono come un "disastro a seconda del punto di vista". La disgrazia di Aish al-Kurd, come quella di milioni di palestinesi governati dallo Stato di Israele, è definibile come una sciagura di regime. Appartiene cioè a un particolare tipo di sciagure, prodotte dai regimi. In casi come questo, la sciagura definisce il regime in sé e la sua capacità di proliferare. Specifico di questa sciagura di regime è il fatto che essa venga messa in atto ripetutamente, ma senza essere percepita come tale dai cittadini che vivono entro la sua portata. Questo malfunzionamento civile, il quale impedisce alle devastazioni che toccano altri settori della popolazione di essere identificate come una sciagura, è appunto una delle condizioni fondamentali dell'apparizione/sparizione tipica delle sciagure di regime. Gran parte della violenza da esse generata è priva dei caratteri più diffusi della violenza come tutti la conosciamo: questi atti non sono spontanei, né si tratta di attacchi casuali e fortuiti. Al contrario, fanno parte di un sistema di potere organizzato, regolato e motivato, alimentato dalle istituzioni dello stato democratico, che a sua volta è protetto dalla corazza costituita da queste azioni. Il principale punto d'avvio di questo libro è la convinzione che, in un contesto di sciagura di regime, il primo passo nell'evoluzione di un discorso civile consista nel respingere l'identificazione di una sciagura con la popolazione che la subisce. Consiste cioè nel rifiutarsi di vedere il disastro come una proprietà specifica di questa popolazione, come ad esempio nella locuzione "profugo palestinese". Un discorso è civile nel momento in cui sospende il punto di vista del potere governativo e i caratteri nazionalisti che lo rendono capace di creare divisione tra i soggetti, e di mettere le fazioni l'una contro l'altra. Se la sciagura è costantemente imposta a una parte di quel tutto costituto dalla popolazione, il discorso civile insiste appunto nel delineare il campo di vedute complessivo in cui si verifica, in modo da mettere a nudo il piano del regime. Il discorso civile non è una finzione; cerca anzi di tracciare la via per un campo di relazioni tra i cittadini da una parte e i soggetti privi del diritto di cittadinanza dall'altra, sulla base della loro alleanza in un mondo che tutti condividono in quanto donne e uomini sottoposti al potere. Si sforza cioè di individuare quei fattori del mondo reale potenzialmente in grado di favorire la realizzazione di questi rapporti di alleanza, in luogo del potere sovrano che minaccia di distruggerli. Per fare tutto ciò, serve un atto di immaginazione. Sono trascorsi ormai più di duecento anni da quando alcuni individui furono chiamati a contribuire a un atto di immaginazione che li portò a percepire se stessi come alleati alla pari entro la struttura politica in cui vivevano, a vedersi – per di più – come cittadini, maschi o femmine che fossero. Questo successo, il diventare di fatto cittadini, fa passare talvolta in secondo piano l'enorme salto d'immaginazione necessario per concepire più soggetti come alleati nella costruzione del regime politico, e al tempo stesso come detentori del diritto ad esserne difesi. In gioco non c'è solamente il banale esercizio di immaginare qualcosa con l'occhio della mente: anzi, quello che mi interessa è la capacità nota come "immaginazione politica", ossia l'abilità di immaginare una condizione politica radicalmente diversa da quella attuale. Per pensarsi cittadino, il soggetto del XVIII secolo dovette immaginare la possibilità di una forma di vita politica non comandata da un monarca, il cui sigillo di sovranità non avrebbe quindi più avuto il potere di costringere esseri umani a marcire vivi in celle soffocanti. In altre parole, la capacità immaginativa di progettare una nuova realtà era indissolubilmente legata allo sforzo di sciogliere le catene di una percezione diffusa, la quale accettava il regime dominante, la monarchia, come un fatto incontestabile. La decapitazione di Luigi XVI nel 1793 è diventata da allora il simbolo di una forma di immaginazione politica che sfonda le proprie barriere. I ben quattro anni trascorsi tra la presa della Bastiglia e la decisione finale del popolo di sbarazzarsi del re – sui gradini della ghigliottina, e grazie ad essa – sono la prova di quanto siano strette le catene che imprigionano l'immaginazione. Ci si potrebbe domandare: ma si tratta davvero di uno sforzo di immaginazione, di una rottura di barriere concettuali? Non c'è la possibilità che quanto viene fatto passare per una rottura, in realtà non faccia che rinforzare queste barriere? In altre parole, cos'è l'immaginazione politica? Dipende esclusivamente dalle azioni pertinenti all'ambito del politico? Non sempre l'immaginazione politica riesce a darci le ali che ci servono per alzarci in volo. Corre spesso il rischio di rimanere intrappolata, limitata, circoscritta. Spesso ricalca forme già esistenti, e tuttavia rimane senza dubbio una forma di immaginazione. Nella maggior parte dei casi, l'immaginazione non vola ovunque all'impazzata, né rimane prigioniera; non sfonda le barriere, né si sforza particolarmente di renderle più solide. Funge per lo più da componente strutturale della nostra coscienza, è attivata di consueto e forma almeno parte di qualsiasi atto comunicativo. Non ne facciamo consapevolmente esperienza per quello che è: un'attività immaginifica, che, ci consente cioè di creare un'immagine sulla base di qualcosa che non è accessibile ai sensi. Proprio per questo, ci rivolgiamo ad essa continuamente. Anche quando gli oggetti appaiono realmente ai nostri occhi, il nostro sguardo contemplativo non incontra l'oggetto nella sua pienezza, ma solo una faccia di esso: è l'immaginazione a crearne l'immagine completa, o per dirla con le parole di Kant, uno "schema" che rende possibile la realizzazione di una sintesi tra la particolarità della cosa e la sua forma concettuale. Per quanto possano essere materiali, le immagini che produciamo con l'occhio della mente rimangono disincarnate, e non godono di una presenza indipendente nel mondo, fatta eccezione per quella presenza che dipende dalla nostra immaginazione. Tuttavia, non siamo l'unica fonte delle nostre facoltà immaginative: l'immaginazione è sempre accompagnata da brandelli di immagini che hanno fondamento nel mondo esterno e negli altri. Tuttavia l'immaginazione rimane privata finché la teniamo chiusa nell'occhio della mente, e non la condividiamo con nessuno. In ciascun gesto di comunicazione con gli altri, questa privacy dell'immaginazione è rotta, e i suoi prodotti si mischiano ad altri prodotti per assumere forme che vanno al di là della portata del nostro privato: dal momento in cui questi prodotti entrano in circolazione per creare frizioni l'uno con l'altro, ecco che fiammate di sorpresa, stupore, meraviglia, shock, costernazione, entusiasmo, orrore, incomprensione o scissione possono verificarsi, come prodotti dell'immaginazione, nella coscienza dei partecipanti a una data interazione, o almeno in quella di alcuni. Queste manifestazioni dell'immaginazione sono classificate come "scientifiche", "politiche", o "artistiche" in relazione alle diverse sfere in cui agiscono, e quindi ai criteri in base ai quali raccolgono lodi o critiche. L'immaginazione è spesso definita come "scatenata" o "creativa" se "noi" (quelli che stabiliscono la definizione) la percepiamo come un'apertura del reale a possibilità benevole, mentre è vista come "perversa" o "patologica" quando il campo delle possibilità ci appare minaccioso, strano o deprimente. Il più delle volte, tuttavia, i punti di frizione creati dall'immaginazione vengono assorbiti all'interno di economie di scambio esistenti, senza che possiamo renderci conto della loro natura immaginaria. Un buon esempio di categoria di questo tipo è lo stato: ricorriamo così di frequente a questo concetto, che ormai da lunghissimo tempo ignoriamo come non sia altro che il frutto della nostra immaginazione, per l'esattezza di un'attività immaginativa comune condivisa con altri. Come cerco di dimostrare nei capitoli che seguono, dedicati alla distinzione convenzionale tra politico ed estetico, l'attributo del "politico", se riferito al parlare, all'agire, all'attività creativa o all'immaginazione, è spesso definito in contrapposizione al suo contrario – il "non-politico" – anziché essere usato per denotare un proprio significato specifico. Quando l'immaginazione è descritta come "politica", lo si fa più che altro per differenziarla da forme immaginarie non politicizzate. Per alcuni il "politico" è un attributo positivo, mentre per altri, che si conformano solitamente alla logica di formule come "non si dovrebbe mischiare x con la politica", è un attributo pericoloso. La "politicità" o la "politicizzazione" di alcuni temi specifici – di norma, l'interesse per i diritti degli altri o per la riparazione di un'ingiustizia – è spesso percepita nel parlato comune come l'area di competenza di chi insiste a parlare di questioni politicamente controverse: una forma d'espressione, insomma, attribuita ai guastafeste. La forza di questa opposizione politico/non-politico è così vasta che chiunque ne faccia uso, sia per sostenerla che per tentare di decostruirla, finisce per adeguarsi alle linee di demarcazione che essa produce. La ridefinizione di tutte le forme di preoccupazione per i diritti altrui o le ingiustizie come questioni "politiche", ossia come qualcosa che non merita l'attenzione dei cittadini, è una delle espressioni più forti di quella radicale trasformazione del "civile" nel "politico" dalla cui morsa questo volume vuole liberarsi. Quello che intendo mostrare è che il civile dovrebbe essere separato dal politico, e definito di per sé come l'interesse che i cittadini nutrono verso se stessi, e verso gli altri, entro le forme condivise di coabitazione e in un mondo che essi stessi creano ed alimentano. Per fare spazio al ritorno della categoria del civile, e al luogo destinato, la suo interno, all'immaginazione civile, è necessario innanzitutto ridefinire l'immaginazione politica. Propongo dunque che sia chiamata "immaginazione politica" la forma di immaginazione che va al di là della portata della mente individuale, che trascende il singolo individuo per esistere tra gli individui ed esserne condivisa. La natura politica di questa immaginazione non è una funzione del campo di referenzialità in rapporto al quale essa è attivata; non è cioè l'effetto di una vicinanza a ciò che è identificato come politico. Piuttosto, ha origine nella pura constatazione che le persone si scambiano i frutti delle rispettive immaginazioni, e pertanto vive in mezzo a queste persone, assumendo forme diverse e giocando un ruolo fondamentale nella costruzione delle loro vite. I dubbi sul fatto che le scuole, le questioni di economia domestica o di mercato appartengano o meno alla sfera del politico, o piuttosto a quella del privato, non possono incidere sulla natura e sul significato politico dell'immaginazione politica. La descrizione dell'immaginazione come politica, pertanto, è una descrizione ontologica che la identifica con l'esperienza condivisa degli esseri umani. È possibile vedere all'opera questa immaginazione in molti eventi storici, ad esempio in situazioni che sono poi state "naturalizzate" ai nostri occhi come convenzionali o di routine: l'apertura del corpo umano vivo e la sua ri-chiusura senza perdita di vita, l'incarcerazione di donne nelle rispettive cucine super-accessoriate, o la trasmissione mediatica di ritratti di individui disseminati ovunque, a prescindere dall'effettiva presenza degli individui in questione. Benché l'immaginazione privata di molte persone aiuti a mettere a punto tecniche che consentano all'immaginazione di prendere materialmente forma nel mondo, la capacità stessa di immaginare condizioni innovative e di renderle parte integrante del mondo condiviso è dovuta all'immaginazione politica, ed è conseguenza della sua natura collettiva: comune a molti e spesso legata all'esistenza di un popolo, ossia conservata da e per un pubblico. La decapitazione di Luigi XVI, come si è verificata in Place de la Révolution (precedentemente nota come Place de Louis XV, oggi come Place de la Concorde), accompagnata dai battiti di sessanta tamburi, sotto lo sguardo di migliaia di soldati e delle masse di cittadini lì riunite, non è il frutto di un'immaginazione individuale. Se anche dovessimo supporre che i responsabili dell'esecuzione avessero lasciato precise istruzioni su come portarla a termine, e che queste istruzioni fossero state seguite con estrema esattezza, creando l'immagine popolare dell'evento riportata in numerose illustrazioni, non sarebbe tuttavia questa la fonte dell'immaginazione politica che ha portato all'uccisione di Luigi XVI. Similarmente, non la si potrebbe rintracciare nell'operato di un qualsiasi singolo politico, dottore o filosofo, o nel testo di un particolare pamphlet. L'immaginazione che ha portato all'evento, insomma, non può aver avuto origine nella coscienza di un solo individuo, né può essersi formata in un solo giorno; al contrario, ha circolato a lungo tra gli uomini, cambiando continuamente forma, assumendo ad esempio quella della ghigliottina, il cui elemento di innovazione consisteva nel ridurre la sofferenza del condannato, oppure oscillando nervosamente tra alternative diverse, dando luce al concetto di volontà comune, e infine trovando momentaneo riposo. Per un certo periodo si è camuffata sotto le vesti del Comitato di Pubblica Sicurezza, ma anche dall'oscurità spingeva i suoi attori ad agire. Entusiasmava le folle nelle strade, tagliava le teste degli aristocratici, toglieva di mezzo chiunque non la condividesse, costringeva gli orizzonti culturali dei suoi seguaci, salvo poi, qualche volta, liberarli di nuovo nel corso del tempo. Mobilitava quelli, tra i suoi seguaci, che vi percepivano il potenziale per realizzare qualcosa di latente e, per riassumere, portava il discorso, lo sguardo e l'azione in luoghi fino ad allora sconosciuti, rendendo reale quell'immagine disincarnata, trasformando in realtà l'idea di uno spazio politico senza un sovrano, idea frutto di questo stesso tipo di immaginazione. A quel punto, non serviva altro che l'operato di un piccolo gruppo di volenterosi, veri e propri esecutori dell'immaginazione, che realizzassero la visione. Nella maggior parte dei casi, l'immaginazione lascia impronte nella storia quando fa cadere le barriere, al punto che l'accezione più condivisa del termine "immaginazione politica" è diventata di fatto sinonimo di una rottura delle limitazioni imposte normalmente all'immaginazione. Pochi di noi, forse nessuno, oserebbero collocare eventi così radicalmente trasformanti in una storia positiva di progresso, quando le macerie della sciagura sono visibili un po' dappertutto: gli avvertimenti anche severi che si trovavano nei testi filosofici dall'Ottocento in poi, in pensatori quali Voltaire, Olympe de Gouges, l'Abbé de Raynal, Theodor Adorno, Walter Benjamin o Hannah Arendt non hanno potuto impedire all'incubo di prendere forma. Ma in compenso hanno creato grosse difficoltà a chi volesse scrivere la storia della cultura senza tenere conto, in un modo o nell'altro, di quanta barbarie ci fosse voluta per generarlo. Nonostante le grida di questi critici, tuttavia, è evidente che il peso accumulato di tanti eventi storici singoli li abbia resi dei punti di svolta senza i quali "noi" non avremmo ottenuto il "nostro" diritto alla determinazione politica. Siamo portati a separare la nostra critica di questi eventi dal consenso che si è creato attorno al loro valore e alla loro importanza, con il risultato che dimentichiamo spesso il ruolo che tali eventi hanno avuto nel generare le atrocità avvenute da quando "il popolo" è diventato sovrano. La grande narrazione che struttura la loro rilettura coerente ci seduce al punto da farci credere che noi siamo cittadini, uomini e donne, e la decapitazione del monarca è paradigmatica del tipo di evento a cui mi riferisco: la sua rappresentazione odierna è ancora tutto sommato vicina a quella proposta da Robespierre a quel tempo: "Luigi deve morire perché la patria sopravviva". L'uccisione del re, allora, era vista come la premessa alla nascita della patria politica dei cittadini, la Repubblica, che avrebbe dovuto sostituire trionfalmente la monarchia sconfitta, a sua volta riletta retroattivamente come uno spazio pre-politico, un tipo speciale di fenomeno naturale del quale era necessario liberarsi per prevenire una guerra finale di tutti contro tutti. Col passare del tempo, la necessità di togliere di mezzo il monarca è stata sostituita dalla vocazione ad eliminare il figlio di suo figlio, che ha assunto nel frattempo le vesti del terrore, del fondamentalismo (quello degli altri, immancabilmente), del fascismo o del comunismo, tutti considerati un minaccia costante per i regimi democratici. Se li si lascia emergere o riemergere, così ci dicono, l'ordine democratico sarà spazzato via. Guai allora ai cittadini della democrazia! Ecco dunque che la nostra esistenza politica è stretta fra due alternative che non sembrano lasciarci scelta, se decidiamo di rimanere nell'ambito del politico. Quando le possibili opzioni spaziano dal repubblicanesimo alla monarchia, dalla democrazia al totalitarismo, dall'illuminismo al fondamentalismo, dal capitalismo al comunismo, dalla sovranità statale al terrore, allora la scelta è quasi ovvia, se davvero di scelta si può parlare quando si accetta il minore dei mali. Come se questo non bastasse, i cittadini tendono a sentirsi vicini ai regimi che cercano di distruggere una presunta minaccia, e sono disposti a pagare il prezzo di sacrificare in parte gli attributi della democrazia stessa; un sacrificio che si presenta sempre come giustificato. La minaccia da eliminare non è mai esterna al regime, non incombe mai da fuori, bensì viene presentata come intrinseca alle fondamenta stesse della democrazia. Così che questa minaccia interna, guarda caso, consente la prosecuzione della sovranità del regime sulla popolazione ad esso soggetta: un regime che crea divisioni tra il popolo facendo sì che l'autorità agisca sulla base del consenso di quella parte dei soggetti che riconosce la sua sovranità, o che è designata dal regime stesso come sottomessa a questa sovranità. Questo sistema di opposizioni, costruito alla fine del XVIII secolo, quando le poche voci slegate dalla sua logica – né repubblicane né monarchiche – furono tolte di mezzo, non ha ancora allentato la presa. Permea tuttora il pensiero politico, che fatica a vedere al di là di queste due alternative, laddove lo stato di soggezione al potere è una componente costante e ovvia di entrambe. Il forte significato dato a concetti come "politico" e "politicizzazione", sulla scorta del pensiero critico emerso verso la fine del secolo scorso, costituisce un tentativo di liberarsi da queste opposizioni. Lo stesso pensiero critico, tuttavia, rimane per lo più imprigionato in queste due trappole, dalle quali il presente volume cerca di evadere. La prima è legata a ciò che più avanti definisco come "il giudizio di gusto politico", a quella formula, cioè, che determina se un fenomeno, una condizione o un prodotto abbia o meno caratteri politici, attribuendo agli individui il potere di politicizzarlo o de-politicizzarlo. La seconda trappola sta nel tentativo di riformulare il "politico" come una particolare relazione con il potere, fatta di negoziazione, di sovversione, di sfida o di disturbo. La figura di cittadino che abbiamo ereditato dal XVIII secolo, il cittadino tutto d'un pezzo che avrebbe preso d'assalto la fortezza dell'immaginazione politica, conseguendo privilegi di cui generazioni e generazioni prima di lui non avevano mai goduto, vede il suo orizzonte politico bloccato da una creatura a due teste, una costruita a partire dalla volontà della gente, l'altra dal potere della sovranità. La combinazione di questi due elementi ha creato lo stato-nazione, una sorta di macchina da guerra che ancora una volta ha soggiogato i propri cittadini, trasformandoli in soggetti costretti ad anteporre la sua tutela a quella dei loro stessi diritti e fondamenti civili. In questo modo, anziché limitare il potere dello stato, impedendo che la sua sovranità si dia ad una frenesia incontrollata e circoscriva la volontà popolare, di fatto occupandone il posto, la cittadinanza si ritrova ad essere privata di nerbo e svuotata di immaginazione. È possibile vedere la cittadinanza stessa come soggetta alle derive repressive e dittatoriali di quell'immaginazione di cui non può che parlare la lingua. Una volta che l'orizzonte civile del cittadino è limitato dallo stato-nazione, dalla sovranità democratica, o dalla volontà popolare, il cittadino formatosi nello spirito della Rivoluzione francese, nella sua reincarnazione attuale, non può che continuare, nonostante tutto, a ritenersi cittadino. Egli, cioè, fatica a capire cosa possa significare non essere un cittadino, o essere uno dei cittadini di seconda classe governati insieme a lui sotto la categoria della cittadinanza. Questa sconfitta dell'immaginazione, lungi dall'essere casuale, o il riflesso delle manchevolezze dell'uno o dell'altro cittadino, è invece un'avaria strutturale che esprime il rovesciamento delle relazioni tra cittadino e potere, tipico della sovranità democratica: non un potere soggetto ai cittadini, ma cittadini soggetti al potere. Nella sua incapacità di immaginare altre categorie di soggetti come cittadini, o forse di rendersi conto che essi sono definiti non-cittadini, il cittadino è un burattino in mano al regime e ai suoi interessi, che sembrano parlare attraverso la sua bocca. L'immaginazione politica, dunque, è insufficiente a renderci capaci di immaginare il non-cittadino o il cittadino di seconda classe come cittadino a tutti gli effetti: ci vuole anche l'immaginazione civile. I capitoli che seguono cercheranno di descrivere questa immaginazione sul campo. La prima parte del libro presenta una trattazione dell'ontologia politica della fotografia. Intendo la foto come un evento particolare che si verifica in due modi: in rapporto alla macchina fotografica, o in rapporto alla foto stessa. Si procederà con il riferimento a due mostre di carattere archivistico da me curate, Act of State e Constituent Violence. Il lavoro per le mostre mi ha permesso di sviluppare in modo più esteso alcune delle riflessioni inizialmente presentate nel mio precedente The Civil Contract of Photography, e di metterle in pratica in relazione ai corpus d'archivio. La seconda parte analizza invece il giudizio di gusto solitamente implicito nella formula "Questa cosa (non) è politica", ricorrente nelle discussioni politiche e critiche ma anche nei discorsi legati all'arte e alla fotografia. L'analisi riguarda soprattutto il modo in cui questo giudizio limita la nostra concezione dell'esistenza politica dei soggetti umani, ma mette anche in luce l'effetto castrante che esso ha sull'ambito specifico della fotografia, che individuo come sede privilegiata per la nascita di un discorso civile. Sospendere il giudizio sulla politicità mi dà la possibilità di considerare politico l'intero spettro dell'esperienza umana condivisa, e di formulare un nuovo discorso sull'intento civile come modus operandi speciale all'interno di esso. Hannah Arendt mi accompagna per mano in questa incursione nel territorio dell'esistenza umana, e userò il suo pensiero per generare nuovi orizzonti di riflessione politica, nei quali potere e sovranità non occupano necessariamente il centro della scena. Il riferimento alla Arendt, poi, rende più facile il superamento delle imposizioni del giudizio sulla politicità, benché il suo lavoro, come ammette lei stessa, ne sia ancora per certi aspetti influenzato. Il terzo capitolo comprende un saggio di fotografia che affronta le domande sul fenomeno della demolizione di case". L'indagine parte dall'assunto che le fotografie, anche quelle scattate dai militari, sono una fonte autorevole per la creazione di una nuova forma di conoscenza, che definisco "conoscenza civile". In questo passaggio, mi schiero a favore di quella che è solitamente definita come "inaffidabilità" della fotografia, ovvero della sua natura parziale, falsa, faziosa o fortuita. Questi termini sono usati, a mio modo di vedere, perché è impossibile attribuire alla fotografia un singolo punto di vista dominante, e perché ciò che essa mostra, il suo referente, è altrettanto bisognoso di specificazione di quanto lo sia l'interpretazione datane successivamente. Quest'ultima riflessione ci porta al quarto capitolo, nel quale delineo gli utilizzi civili dei caratteri della fotografia, mettendo in scena un conflitto implicito tra fotografie esistenti e altre mai scattate: così facendo, cerco di ridimensionare l'identificazione tra la funzione indessicale della foto e il suo status come rappresentazione. La mia riflessione distingue tra l'evento della fotografia e l'evento fotografato, mostrando la necessità di rendere conto di un corpus di fotografie che non ha mai preso forma, con riferimento in particolare agli stupri di donne palestinesi da parte di soldati ebrei attorno al periodo della proclamazione dello Stato di Israele.




Che cos'è la fotografia
Ripensare la dimensione politica
La fotografia come fonte di conoscenza civile
Usi civili della fotografia
Il diritto di non essere colpevoli



postmedia books Ariella Azoulay (nata a Tel Aviv nel 1962) è una documentarista e teorica della fotografia e della cultura visiva. Insegna letterature comparate e media alla Brown University (Watson Institute for International Studies) di Providence e Visual Culture alla Israel's Bar-Ilan University. Civil Imagination: The Political Ontology of Photography è stato pubblicato da Verso nel 2011.