l'arte al tempo dei media




Arte, media, territori

introduzione di Francesco Casetti


DAL PREMIO TERNA AL PANORAMA ITALIANO
UNA RICERCA SUL MONDO DELL'ARTE
L'attività artistica in Italia è accompagnata da un diffuso e costante interesse. Nonostante le inevitabili differenze di attenzione tra protagonisti e comprimari, è facile ricostruire chi fa che cosa. Ci sono tuttavia alcuni tratti dell'attività artistica che rimangono un po' in penombra. Non è facile afferrare le ragioni che spingono molti giovani verso il mondo dell'arte, i valori che si attribuiscono a questa scelta, la sua dimensione vocazionale ed insieme professionale, la rete delle relazioni che implica un tale lavoro, il ruolo del territorio nell'alimentarla, l'impegno sociale che vi può essere connesso, e infine le relazioni tra la pratica artistica e altre pratiche, altre attività. Soprattutto non è facile capire come ci sia un numero molto alto di persone che sceglie questa strada, spesso lontano dai riflettori più potenti, ma con una determinazione e un impegno che non hanno nulla da invidiare alle personalità più affermate. L'artista è tendenzialmente visibile – come lo è il critico o il curatore o il gallerista o il direttore di museo. Meno visibile è il perché e il come egli opera. Soprattutto in un contesto come quello attuale, dominato dalla presenza dei media, che sembrano offrire all'artista non solo nuove occasioni di conoscere e farsi conoscere, ma anche un largo orizzonte di ispirazione e insieme l'accesso a nuovi linguaggi. Le prossime pagine presentano una ricerca che ha provato a gettare un po' di luce su questa faccia nascosta. L'indagine è nata da una serie di coincidenze. Da qualche anno alla Yale University avevo cominciato a lavorare con alcuni colleghi di storia dell'arte e di Film Studies interessati alla maniera in cui l'arte contemporanea e i media mescolano i loro territori. Una attenzione ai nuovi format visivi che si stavano delineando in rete, da Facebook a Flickr, mi spingeva inoltre ad occuparmi della creatività diffusa, quella che sembra nascere dal basso. Infine l'emergere di nuovi linguaggi mediali, e più in generale l'impressione di vivere un momento di profonda ristrutturazione dei tradizionali modi di esprimersi e di comunicare, evidenziava la necessità di ripensare al "medium", sia esso il cinema, la pittura, la scultura, o altro. Quando nel 2010 mi è stato chiesto di far parte del Comitato d'onore del Premio Terna, il piacere dell'invito si è subito saldato con una curiosità scientifica. Il Premio, basato sulla presenza di una serie di artisti già affermati, ma anche sulla possibilità offerta ad artisti un po' discosti dai circuiti maggiori di proporre una loro opera, e caratterizzato da una risposta massiccia a un tale invito, mi offriva infatti un punto di osservazione assai interessante per provare a scavare nel territorio dell'arte – sia pur con uno sguardo un po' eretico, come poteva essere il mio, di studioso dei processi simbolici e comunicativi. D'intesa con Terna, ho provato allora a indagare questo mondo – coadiuvato da una piccola équipe di ricercatori, e con l'aiuto essenziale di Maria Grazia Fanchi, docente all'Università Cattolica di Milano – utilizzando i partecipanti alle edizioni del Premio Terna come campione di indagine. Il disegno della ricerca poteva sembrare anomalo. Ho detto come a livello di contenuti volevamo sondare un po' meglio il significato del lavoro artistico oggi in Italia, analizzandolo non tanto nelle sue punte più note, quanto nel suo essere una pratica diffusa, qualche volta precaria, certamente inserita in parecchi circuiti sociali, e comunque sempre piuttosto dinamica. In altre parole, volevamo contribuire a capire che cosa significa fare arte ed essere artista, in un contesto geografico e sociale composito come è quello del nostro paese, in una fase di trasformazione dell'attività intellettuale, e soprattutto sullo sfondo di una crescente cultura mediale. Ma l'anomalia, o comunque la sperimentazione, era anche a livello metodologico. Volevamo infatti giocare fino in fondo una certa dissimmetria che ci veniva offerta dalla nostra base di indagine: il Premio Terna accosta personalità riconosciute e artisti per così dire più periferici; e inoltre è aperto ad una grande partecipazione, ma insieme opera una selezione finale. Di qui l'idea di usare un doppio strumento, quello dell'indagine campionaria su tutti i partecipanti alle prime due edizioni del Premio, e quello dell'intervista semi-strutturata, riservata a un gruppo di vincitori. Le due strategie di ricerca sono raramente associate, almeno con le modalità da noi seguite: esse ci consentivano tuttavia di raffinare man mano i risultati, ma anche di mettere in tensione due punti di vista diversi e qualche volta distonici. L'arte come pratica diffusa e insieme come achievement; l'attività artistica nella sua quotidianità e insieme nei suoi risultati; una attenzione al modo in cui il fare artistico si radica nella società e insieme ai valori e ai vissuti personale; la fatica e le soddisfazioni; i numeri e le persone. La scelta metodologica mirava proprio a tenere assieme, e anche a far scontrare, queste diverse prospettive, che in qualche modo e da qualche parte percepivamo andassero integrate. Qualche parola in più sui due strumenti di ricerca. L'indagine campionaria, condotta da Paolo Parra Saiani, è partita da un questionario distribuito a tutti i 7.844 artisti che hanno partecipato alle prime due edizioni del Premio Terna. Il tasso di restituzione dei questionari ha avuto successo: tra tutti quelli ritornati, se ne sono ritenuti validi e completi 1.998; una percentuale superiore alla media in questo tipo di indagini. L'elaborazione delle risposte al questionario ha consentito di mettere a fuoco assai bene le caratteristiche dell'artista oggi in Italia. Dopo averne sondato i tratti socio- e demografici, se ne sono evidenziati i modi di lavorare, i tipi di linguaggi usati, i rapporti con il mondo dell'arte e con il mercato, il radicamento territoriale, e le aspettative riguardo il futuro dell'arte. Le risposte fanno emergere dei precisi trend per ciascuna di queste aree: ma incrociando i dati, abbiamo provato anche a vedere come queste aree si correlano tra di loro, per cogliere ad esempio se e come il percorso di formazione condiziona scelte future, o se e come il fatto di vivere in provincia o in città incide sulla professione, o se e come l'intensità dei rapporti con il territorio consente di costruire un mercato significativo, e così via. Sul versante qualitativo, la ricerca ha visto invece 20 interviste in profondità ad altrettanti artisti, scelti fra i finalisti e i vincitori del Premio Terna, e ripartiti fra le tre categorie del premio (6 per la categoria Gigawatt, 9 per la categoria Megawatt e 5 per la categoria Terawatt). L'intervista in profondità è in qualche modo l'inverso del questionario: a partire da una traccia di massima, lascia che siano gli intervistati a verbalizzare il loro vissuto, così come lascia ad essi la scelta di scivolare da un argomento all'altro. Con questo strumento, Elisabetta Locatelli e Marco Tomassini hanno analizzato non solo cosa gli artisti sono e fanno, ma anche cosa riflessivamente essi ricavano da questo loro essere e fare. Mondi di vita e mondo interiore si sono mescolati e in qualche modo sovrapposti: per far emergere nella loro complessità innanzitutto i rapporti fra attività artistica, universo professionale e vita sociale; poi il percorso di formazione, le modalità di rafforzamento di una vocazione, il suo diventare professione; ancora, i luoghi e i tempi di lavoro e l'uso dei linguaggi e delle tecniche; infine i processi di promozione del proprio lavoro da parte dell'artista. Il risultato è stata una ricchissima verbalizzazione di cui il secondo capitolo dà ampiamente conto: una verbalizzazione spesso anche idiosincratica (ogni artista ha un suo linguaggio sia nelle sue opere, sia nel suo modo di comunicare nella quotidianità…), ma in grado di farci cogliere, dall'interno, una maniera di pensare e di vivere l'arte da parte dei suoi protagonisti. Dunque quantitativo e qualitativo. I primi due capitoli di questo volume danno analiticamente conto dei risultati che emergono dai due tipi di indagine. La gran mole di dati tuttavia necessitava anche di una lettura complessiva. Nel terzo capitolo, Mariagrazia Fanchi prova appunto a far emergere una serie di elementi trasversali. In particolare, la sua analisi prende profitto dalle sue ricerche sulla produzione bottom-up, quella che nasce dal basso, come sperimentazione dei consumatori. Come ricorderò più avanti, la pratica artistica oggi mostra molte affinità con queste forme di creatività dal basso, ai bordi o al di fuori di istituzioni certe, e basata su forme spesso "virali". Sempre nell'ottica di una lettura complessiva, abbiamo inoltre chiesto a tre persone di diversa competenza, e cioè ad uno storico dei media come Peppino Ortoleva, ad una critica d'arte contemporanea come Emanuela De Cecco, e ad una organizzatrice culturale come Valeria Cantoni, di proporci ciascuno un proprio "filo" trasversale. Le risposte, assai personali, servono ad aprire nuovi scenari, più che a chiudere un percorso. Del resto il percorso non si chiude neppure con l'ultimo contributo, una breve intervista allo studioso e critico americano David Joselit – autore di un libro molto influente, Feedback, che legge la storia della televisione americana come un capitolo essenziale dei conflitti inerenti il mondo dell'arte, e più in generale l'universo della produzione del simbolico. A Joselit ho chiesto di rovesciare il suo assunto, e dirmi se oggi l'arte è un capitolo della storia dei media. La risposta rilancia la posta in gioco….

LO SCENARIO: L'ESPERIENZA DELL'ARTISTA
Questo la ricerca, nel suo impianto di base. Ora, senza sovrappormi né ai report contenuti nella prima parte, né alle interpretazioni contenute nella seconda, vorrei qui provare a sintetizzare alcuni dei principali risultati. Comincerò a ricordare una serie di dati che riguardano rispettivamente il tipo di esperienza che caratterizza il fare artistico oggi in Italia, e il valore che i protagonisti attribuiscono al loro fare e al loro prodotto artistico. La decisione di mettere a fuoco l'esperienza dell'artista e il valore dell'arte è tra gli elementi che hanno mosso la ricerca. Vediamo ora come si concretizza lo scenario. Partiamo dall'esperienza. Gli artisti parlano volentieri di sé e delle loro opere. Lo fanno spesso in un linguaggio per iniziati, quando parlano delle opere. E lo fanno spesso con un linguaggio tra il trattenuto e il convenzionale, quando parlano di sé. Non sempre parlano per il pubblico dell'arte, come ci ricorda Valeria Cantoni. Questa ricerca, da un lato attraverso una batteria molto ampia di questioni tendenzialmente assai concrete, dall'altro lato attraverso delle interviste in profondità, fatte da chi non si poneva come "addetto ai lavori", ha consentito di entrare più a fondo nel cuore dell'esperienza dell'artista, e dunque di ricostruire il suo vissuto, le sue pratiche, i suoi orientamenti, le sue aspirazioni e il suo sistema di relazioni. Ciò che è in gioco è un modo di vivere e di fare, una identità personale e sociale, un senso di appagamento e di appartenenza. Possiamo capire meglio un tale quadro di esperienza, se ci soffermiamo in particolare su tre aree specifiche. La prima investe il processo di formazione dell'artista, dal momento in cui egli avverte il richiamo di una vocazione fino al momento in cui ne fa il fulcro della sua vita. La seconda riguarda le modalità con cui gli artisti esercitano la loro attività artistica – una attività che è anche una professione. La terza investe i diversi modi in cui essi si correlano al loro ambiente, sia artistico che sociale e mediale – e dunque in cui essi definiscono il loro territorio per così dire di appartenenza. Qualche emergenza per ciascuna di queste aree – rinviando alle analisi dei capitoli successivi per un quadro assai più completo. a. La formazione La prima cosa che colpisce è come la vocazione a operare nell'arte si manifesti presto nella vita dei nostri soggetti (per il 71% del campione, prima dei 18 anni), e come essa si imponga su tutto. Mariagrazia Fanchi, nel terzo capitolo, parla giustamente di "forza della chiamata", e individua nell'"agnizione" – il fatto di riconoscerla e di rispondervi – uno snodo narrativo fondamentale per definire l'identità di molti degli artisti che hanno partecipato alla ricerca. La coltivazione di questa vocazione segue peraltro due strade fortemente distinte. La metà del campione passa attraverso un percorso da autodidatta, lontano dai luoghi istituzionali in cui si "insegna" l'arte; mentre l'altra metà risponde al desiderio di diventare artista frequentando delle scuole o dei corsi appositi, e completando il cammino con l'Accademia di Belle Arti (nel 20% dei casi). L'Accademia peraltro suscita retrospettivamente dei sentimenti ambigui: come emerge nel secondo capitolo, i contenuti dell'insegnamento appaiono lontani da quello che poi sarà l'esito cercato e trovato da ciascun artista; semmai l'Accademia sembra servire per incontrare qualche volta professori capaci di chiarire le idee agli allievi e di aiutarne l'auto-consapevolezza, o anche per di insegnare il funzionamento delle dinamiche proprie del sistema dell'arte, con conoscenze precluse agli altri aspiranti artisti, costretti ad apprenderne autonomamente le convenzioni. In ogni caso la formazione è vista come un cammino in cui l'assenza di regole e di convenzioni è un bene, perché lascia così il giovane artista più libero di rischiare e sperimentare, in un campo in cui peraltro si prescinde ormai da qualsiasi canone figurativo o estetico. Ciò non significa l'assenza di figure di mediazione: solo che esse sono cercate e trovate autonomamente (anche se talvolta in modo fortuito e fortunato). b. La professione Analizzando l'operare artistico in quanto professione, il primo dato che emerge è che ben il 62,7% degli artisti che hanno partecipato alla ricerca fa anche un altro mestiere: soprattutto libero professionista (14,2%), insegnante (13,8%) o impiegato nel settore pubblico (13,4%). Se la vocazione porta ad essere artisti integrali, sul piano pratico l'arte si mescola ad altre occupazioni. Spesso la seconda professione è vicina alla prima: troviamo designer, grafici, stilisti, fotografi, video maker, restauratori. Ma non sempre questo avviene: sono numerosi i casi di vite fortemente "composite". Il problema semmai è quello di trovare un qualche equilibrio tra le due professioni, di fare emergere una qualche coerenza esistenziale. A me paiono emergere al proposito almeno tre strategie. Una parte del campione attua una strategia della distinzione: il 33,4% riconosce che la seconda professione non ha attinenza con la propria attività artistica. Una parte attua al contrario una strategia dell'integrazione: una percentuale pressoché analoga cerca di colmare il gap tra le due attività, mettendo in atto quelle che Fanchi chiama processi di coerentizzazione. Infine una parte, man mano che il lavoro artistico prende piede, e i riconoscimenti arrivano, procede non solo ad abbandonare il secondo lavoro, ma anche a cancellarne le tracce, soprattutto se esso aveva attinenza con l'impegno artistico: ciò che si adotta qui è una strategia della riconversione (un passaggio in una intervista nel secondo capitolo la illustra bene). Dunque i nostri soggetti si sentono integralmente artisti, ma devono anche adattarsi alle circostanze – ben lontani dal modello romantico, non si sentono traditi dalla vita, semplicemente la affrontano. C'è un secondo nucleo che appare altrettanto interessante: la maggioranza del nostro campione (il 51,7%) lavora in casa; soltanto il 36,4% possiede e utilizza uno studio. Inoltre la maggioranza dichiara di fare da sé: pochissimi utilizzano assistenti, e soltanto il 31% lavora – ma occasionalmente – con altri artisti. E questo anche se di nuovo la maggioranza opera con più linguaggi, che implicano spesso complesse pratiche tecnologiche. Di nuovo, questo dato potrebbe essere letto come un'assenza di vero professionismo, quasi che la gran parte dei soggetti coinvolti nella ricerca "volesse" essere artista senza veramente "esserlo". In realtà il dato conferma la "adattabilità" del nostro campione: l'artista affronta le circostanze e cerca di disbrigarsi con un modello operativo auto-centrato, ma non per questo approssimato o rinunciatario. Del resto questo atteggiamento va probabilmente collegato con un altro dato che emerge soprattutto dalla analisi qualitativa: gli intervistati sono abbastanza compatti nel sottolineare la crucialità del momento dell'ideazione, anche rispetto alla realizzazione. Il culmine del lavoro artistico, per così dire, coincide con il momento in cui si progetta l'opera, mettendo assieme una serie di sollecitazioni che non avevano ancora trovato la loro forma. Ciò non significa appunto che si è artisti – individualmente – sia che si operi poi da soli, anche in uno studio domestico, o sia che si operi poi in équipe, ricorrendo alla collaborazione di tecnici specializzati ad esempio nell'uso di determinati materiali. Certo, come Locatelli e Tomassini sottolineano, ciò dà luogo a due profili diversi: ma essi non appaiono in conflitto, quanto piuttosto in relazione di compatibilità. Ultimo nucleo di interesse. Proprio la crucialità del momento dell'ideazione rispetto a quello della realizzazione porta a sottolineare come l'artista debba "coltivare" la propria ispirazione. Sempre nel secondo capitolo, si può trovare una attenta ricostruzione di come i consumi culturali (letteratura, saggistica, cinema, musica) e le frequentazioni sociali (colleghi, critici, ma anche professionisti di altri settori) aiutino la creazione. Il ritratto "ad altezza di quotidianità" che ne esce è straordinariamente rivelatore. c. L'ambiente L'ambiente più immediato in cui i nostri soggetti si muovono è quello rappresentato dal mondo dell'arte, con le sue figure canoniche – i colleghi, i critici, i galleristi, gli organizzatori, ecc. Gli artisti danno spazio e importanza ai rapporti con questo mondo, ma lo vivono anche con una qualche dimensione di ambivalenza. Ad esempio ben il 90,3% del nostro campione mantiene relazioni con altri artisti, ma solo il 43,3% fa parte di una qualche associazione di categoria. Questa scissione di comportamento si riflette anche sul piano dell'atteggiamento: poco più della metà del campione (55,4%) sostiene che le relazioni con i protagonisti del mondo dell'arte sono assolutamente fondamentali; l'altra metà è invece scettica (il 36,3% le ritengono potenziali fonti di distrazione; l'8,2% addirittura inutili). La stessa ambivalenza si può del resto trovare nei confronti delle riviste di settore, dei critici, dei galleristi, ecc. L'artista è un solitario che deve intrattenere rapporti sociali (o meglio, è un essere sociale che pensa di essere, in quanto artista, un solitario). Del resto questo orientamento trova una conferma quando i nostri soggetti parlano del futuro dell'arte: se il presente appare bigio, ma non del tutto negativo, l'avvenire appare meno roseo, almeno in Italia (ma l'altrove è per definizione il luogo di una utopia…). C'è però anche un secondo ambiente a cui i nostri soggetti fanno riferimento: quello del territorio fisico in cui operano. Il luogo che il nostro campione considera come "proprio", e dove cioè si sente più radicato e valorizzato, è in prima istanza quello in cui risiede (33,6%). Tuttavia una percentuale quasi altrettanto ampia (30,0%) risponde che il proprio luogo coincide con quello in cui risiede la cerchia di persone con cui si hanno rapporti: collaboratori, artigiani, amici, ecc. Già questo doppio radicamento è interessante: il territorio di riferimento non è dato, è scelto, ed è variabile. Ma forse ancor più interessante il fatto che per molti artisti questa scelta appaia strumentale: si va a stare dove si trovano i migliori vantaggi per la propria professione; e si costruisce una cerchia a partire da coloro che partecipano fattivamente ai propri progetti. Insomma, prima il lavoro, poi il territorio. Tuttavia questo non vale per tutti: ritroviamo anche un atteggiamento indubbiamente un po' più tradizionale, per il quale il territorio costituisce un valore per sé. In questo caso, nella costruzione delle proprie relazioni sociali emergono sia una più ampia disponibilità, sia una più accentuata rilassatezza. Non pare cioè esserci quella sottile riserva, o quella accentuata strumentalità, che intervengono quando ci si riferisce solo al mondo dell'arte, o quando si mette il proprio lavoro al primo posto. In questo senso è rivelatore che una parte considerevole degli artisti intervistati (il 47,6%) sia impegnato in attività culturali quali circoli e associazioni, e il 34,2% sia impegnato in attività artistiche di carattere sociale (con persone diversamente abili, bambini, etc.). Così come è rivelatore che tra le figure con cui si hanno più contatti, ci siano il direttore o il personale di associazioni culturali, sia pur seguiti dai curatori di mostre o esposizioni, poi dai musicisti, architetti, corniciai e scrittori. Il territorio si sceglie, ma anche spesso si trova, e ci si vive. Aggiungo – ma ne parlerò più avanti – che le relazioni con il territorio si rivelano utili anche a vendere le proprie opere. E che comunque questo territorio non solo si colloca per la grande maggioranza in Italia (il 91,4%), ma anche che coincide solo per un terzo (il 35%) con comuni al di sopra dei 500.000 abitanti. Infine c'è un terzo territorio a cui i nostri artisti fanno riferimento: è lo spazio disegnato dai media. Innanzitutto colpisce che ben il 70% del campione sceglie "sempre o quasi sempre" internet come strumento di autopromozione. Il dato può essere utilmente confrontato ad esempio con le risposte riguardanti le riviste d'arte o di settore: solo il 33,1% le considera uno strumento 'molto importante per farsi conoscere' (il 59,1% le vede come utili ma non determinanti). I nuovi media battono i vecchi. Tuttavia il dato va raffinato: agli utenti di internet è anche stato chiesto di dirci quali "spazi" frequentassero: il 53,5% dichiara di affidarsi 'quasi sempre' o 'sempre' ai siti dedicati all'arte, circa il 32% ai social networks, il 15% ai blog (i forum e i siti di compravendita sono al di sotto del 10%). Dunque il mondo dei media è visto in funzione del mondo dell'arte. Un terzo aspetto però ci dice che i media sono comunque rilevanti in sé: alla domande relative ai linguaggi usati, la maggioranza risponde di utilizzare più linguaggi; e a fianco di una ovvia prevalenza per i linguaggi tradizionali (pittura e scultura), ben il 33,3% risponde di usare anche internet e web nell'ambito della attività creativa. I media sono strumentali, ma possono anche diventare sostanziali (e, come nota Emanuela De Cecco, il Premio Terna potrebbe aprirsi ancora di più a questi "formati multimediali" emergenti). Aggiungo che il ruolo dei media ritorna in molte dichiarazioni nella parte qualitativa della ricerca. In particolare colpisce di nuovo l'uso sistematico del collegamento in rete, di cui si sottolinea qui soprattutto l'utilizzo relazionale – restare in collegamento con amici e colleghi, esplorare nuove amicizie, ma anche farsi conoscere, prendere contatto, ecc. Ma colpisce ancora di più la diffusa pratica di cercare nel Web materiale utile per l'ideazione e spesso per l'esecuzione delle opere – il Web è una sorta di enciclopedia in cui puoi trovare di tutto, in vista magari di una esplorazione seguente più mirata. I media sono ormai parte integrante delle pratiche artistiche, anche per coloro che poi non realizzano opere in questo campo.

LO SCENARIO: IL VALORE ARTISTICO
Ho appena parlato di vendita delle proprie opere: il secondo nucleo tematico che emerge nella nostra indagine è quello del valore artistico. Questo valore si può articolare in una triplice forma: può essere il valore simbolico che l'artista attribuisce al proprio lavoro e alle proprie opere nel perimetro della sua vita; può essere il valore commerciale che l'opera ha nel mercato dell'arte, e infine può essere il valore sociale che deriva dalla reputazione che l'artista e la sua opera possiedono rispetto ai diversi soggetti professionali o territoriali. In ogni caso, qui, questo valore, non è semplicemente quello espresso da una quotazione: è semmai il risultato più complesso, anch'esso radicato nel vissuto dei soggetti, di una serie di fattori oggettivi e soggettivi – di aspirazioni e di risultati, di progetti e di riconoscimenti, di ricerca e di soddisfazione personale. Ma esaminiamo le tre categorie una per una – di nuovo a sommi capi, rimandando ai capitoli successivi per un quadro più completo.
a. Il valore simbolico
Al centro del valore che gli artisti danno alla propria opera, c'è un meccanismo di riconoscimento: ciò che importa è essere identificati e insieme essere accettati per quello che si fa. Si tratta innanzitutto di un auto-riconoscimento: l'artista ha bisogno di trovare un continuo senso al proprio operare – compreso nelle lunghe pause in cui esplora possibili soluzioni, accumula letture e visioni, gira attorno a nuovi progetti senza averne ancora un'idea chiara. Uno degli artisti intervistato nella indagine qualitativa lo dice benissimo: "Fare arte è una necessità primaria per me, tutto il resto, il risultato non dico che è in secondo piano. È come un'ossessione, per me è importante fare". Naturalmente questo momento personale trova alimento all'esterno di sé: gli artisti che hanno partecipato alla ricerca tengono in massima considerazione il giudizio sulla propria opera espresso dai colleghi, anche se i rapporti interni al mondo dell'arte appaiono spesso assai ambivalenti; così come tengono in massima considerazione l'interesse di galleristi, committenti e collezionisti, anche se c'è spesso una latente paura di esserne condizionati. Diciamo, l'auto-riconoscimento è aiutato dal riconoscimento degli altri artisti e dal riconoscimento del mercato – ma esso fonda questi due, non ne è fondato. Da questo punto di vista il mondo dell'arte appare un universo auto-centrato e auto-regolato. Se narcisismo c'è, è auto-riflesso (e non basato sulla ricerca esasperata del consenso, com'è quello che spesso si imputa ai tempi presenti).
b. il valore commerciale
Un dato che emerge con nettezza è che l'artista oggi in Italia è del tutto consapevole dei meccanismi del mercato – e che non li rifiuta, ma anzi li considera del tutto congrui con la sua attività. Tanto per cominciare, quasi tutti i nostri soggetti hanno esposto le loro opere almeno in una mostra collettiva, e quasi l'80% in una personale, in spazi privati, o in spazi istituzionali, o in spazi no profit. Molti (soprattutto tra gli intervistati nella parte qualitativa) fanno riferimento anche alla fiera. L'esibizione della propria opera rappresenta un momento cruciale: è grazie ad essa che ci si misura e si è misurati. Ne troviamo una conferma nel fatto che l'alternativa alla mostra e alla fiera è considerata la presenza in internet, ma in siti dedicati all'arte – siano essi il proprio sito personale, o il sito della galleria con cui si collabora. Appunto: pur sempre in uno spazio di esibizione. Ma esibirsi significa anche affrontare un giudizio: e qui le cose diventano un po' più complesse. Ad esempio è interessante che il nostro campione si divida a metà tra chi si sente apprezzato dai critici e chi no: nella ricerca del riconoscimento (interiore ed esteriore) che come ho detto innesca il valore, non solo il critico appare una figura chiave, ma anche uno snodo non semplice da sciogliere. Del resto i rapporti con altri soggetti da cui ci aspetta un riconoscimento di sé e della propria opera appaiono ancora più contraddittori. Ad esempio il ruolo dei galleristi è giudicato necessario da oltre l'80% del campione: il 53,0% però non lo coltiva, e quasi il 17% lo giudica addirittura nocivo, poiché commercializza la relazione del pubblico con l'arte. I curatori sono considerati meno negativamente: solo il 4,4% giudica il loro ruolo superfluo, mentre quasi il 31% lo ritiene indispensabile. Anche le aste suscitano un atteggiamento contraddittorio: il 39,1% le giudica in taluni casi utili, e solo il 7,2% fondamentali, mentre il 39,4% dice di non esservi interessato e il 19,4% pensa che siano addirittura nocive. Solo l'istituzione museale riscuote ancora grande successo: la grandissima maggioranza la considera essenziale, anche se il 57,1% avverte la necessità comunque di una sua riforma. Dunque se è vero che il valore anche commerciale di un'opera è il riflesso di un meccanismo di riconoscimento, a fronte di una diffusa volontà di esibirsi, sta un atteggiamento assai misto nei confronti di chi poi è autorizzato a dare un giudizio. Ma il valore commerciale è definito anche dalla vendita. La maggioranza degli artisti del nostro campione ha difficoltà al riguardo: solo una percentuale di poco inferiore al 19% riesce a vendere con facilità; un altro 56,7% vende, ma raramente; il 12,8% quasi mai e l'11,8% non ha mai venduto una propria opera. I principali acquirenti sono in larga maggioranza privati (77,7%); praticamente assenti i musei, le fondazioni, gli enti pubblici o no profit e le istituzioni; un po' più presenti le gallerie commerciali. Scarse infine le vendite on line e tramite asta. Il riconoscimento da parte dell'acquirente mostra dunque un quadro chiaro: il mercato è soprattutto nelle mani dei privati, sia collezionisti o appassionati, sia proprietari di gallerie. La cosa è confermata a livello di committenza: poco meno dei due terzi degli artisti intervistati ha svolto opere su commissione (65,6%); la maggioranza comunque ha lavorato per una committenza privata (91,5%). Ho insistito sul fatto che valore commerciale di un opera dipende da una serie di fattori, che iniziano con l'esibizione, continuano con il giudizio dei mediatori, e si concludono con la vendita. Il valore non è solo una cifra: è la risultante di un processo. Ciò che la ricerca mette assai bene in luce è come questo processo presenti parecchi elementi contraddittori (ad esempio l'ambivalenza nei confronti dei critici, o la riconosciuta assenza di istituzioni pubbliche), ma è anche perfettamente interiorizzato dagli artisti.
c. Il valore sociale
Ci sono due cose che mi hanno colpito, per quanto riguarda l'acquisizione di quello che abbiamo chiamato un valore sociale. La prima è che il radicamento territoriale sembra influenzare la possibilità di vendere le proprie opere: si può notare che vende "con facilità" il 39,5% di chi ha un alto radicamento sul territorio, mentre la percentuale scende al 17,5% per chi ne ha un radicamento medio e al 9,4% di chi ha un radicamento basso. Ciò apre ad uno spunto interessante: se il valore dipende da un riconoscimento, maggiore è l'attività di networking, maggiore è il valore che si acquisisce. La cosa viene espressa con chiarezza da più di un intervistato nella parte qualitativa: al punto che si considera questa attività di networking come intrinseca al mestiere di artista (così come, lo ricordo, si considera intrinseco il lavoro di "alimentazione" della propria creatività attraverso un largo raggio di consumi culturali). L'artista, pur auto-centrato, è un individuo ad alta apertura sociale e culturale. Ci potrebbe essere il sospetto che l'apertura a un network sia solo strumentale a un risultato. Un'altra piega della ricerca lo smentisce: una parte degli intervistati insegna in scuole o in Accademie artistiche; per essi l'insegnamento non è solo un'attività utile (nello specifico, per entrare in contatto con nuove sollecitazioni e nuove personalità, da cui si può anche apprendere); è anche una missione che ha una ragione in se stessa. L'utilitarismo ha un limite: l'aprirsi agli altri è anche un dovere. È anche su questa base che l'arte acquista un valore sociale.

LINEE DI TENDENZA: DALL'ARTISTA-INTELLETTUALE ALL'ARTISTA-MEDIATORE
L'attenzione da un lato all'esperienza dell'artista, dall'altro al valore dell'arte, ci ha permesso di disegnare lo scenario complessivo entro cui l'artista sembra muoversi, oggi, in Italia. Molti tratti di questo scenario sono sorprendenti, molti sono in parte nuovi. Di qui la necessità di andar oltre la descrizione di un panorama, e di provare a vedere anche le linee di tendenza che lo attraversano. Quale idea di fare e di essere artista sta trasformando l'universo dell'arte? Quali profili d'artista stanno emergendo? Verso quali modelli non estetici, ma culturali, ci stiamo muovendo? Vorrei cominciare da una osservazione di Peppino Ortoleva. Nel suo intervento, egli nota come il quadro offerto dall'indagine presenti delle sottili contraddizioni. C'è l'addio alla figura romantica dell'artista, ma anche l'enfasi su una vocazione; l'importanza data all'auto-valutazione, ma anche il desiderio di una legittimazione da parte delle figure che "contano"; il bisogno di momenti di ricerca, di pause nel proprio fare, ma anche la sottolineatura degli aspetti quasi materiali della pratica artistica; e soprattutto, un'apertura ai media, senza però adottarne sempre fino in fondo la logica (giusto per non sentirsi tagliati fuori da una rete di comunicazione, ma anche spesso scegliendo di radicarsi il più possibile in un territorio concreto). Si tratta di contraddizioni ben diverse da quelle del passato, che vedevano l'artista diviso ad esempio tra volontà di indipendenza e presenza di committenti, o tra la volontà di ricerca e l'uso di linguaggi riconoscibili, o tra necessità di un impegno sociale e specificità della sfera artistica. Queste nuove contraddizioni non creano lacerazioni e conflitti, ma piuttosto una serie di tensioni tra cui l'artista cerca di "disbrigarsi". Soprattutto, esse portano a un nuovo atteggiamento: l'artista, misurandosi con esse, emerge come una persona pratica ma non cinica, radicata nel locale ma attento al globale, conscio del proprio ruolo ma volonteroso di dialogo, dedito all'arte ma non chiuso dentro essa (per quanto i rischi dell'autoriflessività siano ancora presenti, come sottolinea nel suo commento Valeria Cantoni). Lo ripeto: abbiamo a che fare con qualcuno che è ben inserito nel mondo in cui vive; che affronta le contingenze e prova a piegarle a proprio favore; che è consapevole delle difficoltà che incontra e insieme dello statuto privilegiato di cui gode. Lo scetticismo rispetto alla capacità dell'arte di produrre delle palingenesi sociali, ben testimoniato nelle parole degli stessi artisti nel secondo capitolo, è una prova di questo nuovo atteggiamento più concreto (il che non significa la fine di ogni utopia: al contrario, si ritiene sempre che l'arte possieda una capacità di far emergere disagi e contrasti; semplicemente non le si danno compiti che vanno al di là delle sue possibilità). La prima tendenza che sembra profilarsi in questo nuovo panorama può allora essere riassunta dicendo che sembra finita l'epoca dell'artista-intellettuale: al suo posto si impone piuttosto la figura dell'artista-mediatore. Il mediatore è colui che anziché parlare dall'alto, in nome di un imperativo, vive il proprio tempo in tutte le sue contraddizioni. È mediatore perché cerca una soluzione, misurandosi con quello che trova, e approfittando delle situazioni. Ed è mediatore anche nel senso che opera con e come i media, e cioè mette in contatto elementi diversi, costruendo reti di relazioni e reti di opportunità, in una specie di dialogo aperto con il suo ambiente e con il suo tempo. Forse talvolta in questa operazione di mediazione si trascura il pubblico (è la tesi di Valeria Cantoni): quel che è importante è che si lavora sulla concretezza della situazione.

LINEE DI TENDENZA: DALL'ARTISTA-PROFESSIONISTA ALL'ARTISTA PRO-AM
La seconda tendenza che volevo segnalare emerge da alcune osservazioni di Mariagrazia Fanchi. Nel terzo capitolo, Fanchi ci ricorda, sulla scorta di Anderson, l'emergere nel mondo contemporaneo della figura del Pro-Am. Il termine "amateur", che affianca qui quello di "professional", non è limitativo. "Amatore" infatti rinvia al coinvolgimento affettivo nei confronti di quello che si fa; alla disponibilità a lavorare al di fuori dei canoni fissati istituzionalmente o socialmente; e infine alla capacità di aggregare saperi e pratiche diverse. Ebbene, l'artista oggi sembra passare dallo statuto di professionista a quello di Pro-Am. Ne è una riprova il fatto che egli viva la sua attività come un mestiere, ma anche come una vocazione e in qualche modo come un destino; il fatto che sia ben consapevole che l'arte è una istituzione, ma che sia pronto anche a lavorare in una terra di nessuno che egli cerca di far propria; e il fatto che gestisca spesso il suo tempo e il suo fare come i vecchi eruditi, o come i nuovi artigiani. Il risultato in ogni caso è un nuovo profilo che brucia i confini tra specialista e dilettante, senza rinunciare alla intensità e alla profondità dell'operare artistico tradizionale – ma semmai aprendo questo operare ad una circolarità di idee e ad un ricambio progettuale del tutto arricchenti. Questa tendenza trova una conferma in un altro tratto che ci viene ricordato da Mariagrazia Fanchi, e cioè la crisi di quel modello verticale che ha caratterizzato a lungo l'industria, compresa quella culturale. Al posto di una netta distinzione tra fasi e ruoli produttivi, si stanno oggi affermando prassi diversificate e fluide, in cui produzione e consumo si mescolano, con il consumatore che riprende il prodotto, lo rilavora per adattarlo alle proprie esigenze, spesso ne sforza i limiti, fino a attribuirgli nuove funzionalità (che la produzione a sua volta può recepire e re-incorporare nei prodotti che verranno). Si tratta di un modello che non caso viene chiamato "produsage", a sottolineare la coesistenza di production e usage. Ebbene, i nostri artisti sembrano sempre più muoversi verso questo orizzonte. Non è un caso che spesso le loro opere nascano da un rimescolamento e da una riattivazione di materiali precedenti, o da forme di collaborazione con saperi tecnici diversificati. E soprattutto non è un caso che gli artisti accettino le logiche del mondo dell'arte, compresi i ruoli che lo contraddistinguono, ma nel contempo rifiutino ogni forma di gerarchia. In senso negativo: temono condizionamenti. Ma anche in senso positivo: hanno bisogno di interlocutori con cui confrontarsi anche nella fase di creazione e che li aiutino a mettere in luce il senso (e il valore) del loro operato. Ciò che emerge è insomma un rifiuto crescente dell'arte come "filiera produttiva prestabilita" a favore di "operazioni artistiche" complesse in cui i ruoli si mescolano e le fasi della creazione si intersecano. Aggiungo che questo modello di "produsage", così come la figura del Pro-Am, trovano il loro terreno di coltura nelle pratiche grass-roots che oggi caratterizzano molta della produzione intellettuale. Si tratta di pratiche che vedono i consumatori di beni e servizi intervenire creativamente su ciò che offre loro il mercato, e che vanno dal semplice uso di un device al di fuori dalle regole fissate dal libretto di istruzioni, fino alla vera e propria invenzione di nuovi oggetti – basati spesso sul rimontaggio e la combinazione di oggetti precedenti. Queste invenzioni del consumatore mescolano conoscenze professionali e capacità di bricolage, sperimentazione individuale e dialogo con i bisogni collettivi, punti di raffinatezza e concessioni al gusto popolare. Esse sono particolarmente evidenti nel mondo dei media. Basta andare su YouTube per vedere come molti dei prodotti ospitati ricordino, e spesso riprendano, prodotti in circolazione, e li riaggiustino, li trasformino, li proiettino in altre dimensioni, attraverso un lavoro di qualità ma anche con tratti di dilettantismo, dominato dalla voglia del nuovo ma anche pronto a entrare in correnti consolidate, molto personalizzato ma anche di massa (la produzione maggiore, dopo aver fornito materiali per queste pratiche dal basso, spesso si impadronisce dei risultati, e li ripropone a sua volta). In questo senso possiamo ben dire che l'artista Pro-Am partecipa di una trasformazione del lavoro intellettuale più ampia, che ha nel campo dei media la sua palestra più evidente.

LINEE DI TENDENZA: DALL'ARTISTA RADICATO ALL'ARTISTA GLOCAL
La terza tendenza riguarda il territorio – geografico, sociale, linguistico e istituzionale – entro cui i nostri artisti si muovono. Di nuovo, parto da una serie di dati messi in luce dalla ricerca e che Mariagrazia Fanchi rilancia parlando dell'emergere di una cultura vernacolare. Tratto tipico di questa cultura è la forte commistione di alto e basso, di proprio e improprio: il vernacolare è un linguaggio fortemente sincretico, pieno di contaminazioni, e tendenzialmente idiosincratico. La sua adozione nel campo dell'arte ha un duplice effetto: da un lato porta a opere che dialogano tendenzialmente con le pratiche comunicative e culturali quotidiane, anche le meno legittimate; dall'altro lato porta a un indebolimento del campo dell'arte, non più circoscritto e circoscrivibile entro un recinto fatto di stili e di modelli ben consolidati. Il vernacolare, insomma, fa lievitare forme espressive spesso impure, sia pur sempre molto personali; e nello stesso tempo dissolve i tradizionali territori dell'arte, a favore di una continua circolarità e intercambiabilità di modelli. Questa dispersione dell'arte al di fuori del suo territorio trova una conferma anche in un altro tratto messo in luce da Mariagrazia Fanchi, sulla base di una serie di evidenze che emergono soprattutto nella parte qualitativa. Si tratta di una contraddizione in cui i nostri artisti sembrano spesso presi, quella tra il voler essere se stessi e la necessità di una appartenenza. Se da un lato quel che conta è il loro stesso sentimento nei confronti di quel che fanno, dall'altro essi sono aperti a una ricca gamma di relazioni con chi e cosa li circonda – e da cui spesso traggono il senso del loro operato. Di qui una tensione tra l'isolamento e il bisogno di immersione, tra la volontà di distacco e la ricerca di nuovi contatti. E di qui soprattutto una serie di forme di affiliazione che implicano elementi di prossimità – il territorio fisico in cui l'artista abita – e insieme un disancoraggio da questo territorio – il colloquio a distanza con altri soggetti, la disponibilità a viaggiare per alimentare la propria ispirazione, l'interesse e l'apertura verso ciò che si fa altrove. Di nuovo, i confini del territorio, compreso il territorio istituzionale dell'arte, si fanno sempre più sottili. Possiamo forse riassumere questa condizione dell'artista contemporaneo, pronto ad mescolare linguaggi diversi per formare il proprio (il vernacolare) e nello stesso tempo pronto ad evadere dal proprio territorio più prossimo, senza però rinunciare all'idea di abitare da qualche parte (le nuove affiliazioni), dicendo che quello che qui matura è una dimensione "glocale". L'artista non è più confinabile in un territorio ben preciso, si tratti di una regione o di una scuola, di una nazione o di uno stile. Attraversa territori, come un nomade. Ma a differenza del nomade, in questo attraversamento costruisce un posto che può considerare suo – trova una casa, sia pur spesso aperta su quattro lati. Appunto, pratica la globalità; ma per trovare una località. Di nuovo, i media costituiscono un punto di confronto ineludibile: il "glocal" è un portato specifico della loro azione; è il risultato di saper connettere ogni punto del globo, e insieme di saper costruire un ambiente quasi dedicato.

VERSO UN NUOVO ORIZZONTE DEL FARE ARTISTICO?
Le tre linee di tendenza che ho sinteticamente riassunto segnalano i mutamenti in atto, e forse disegnano un nuovo orizzonte. All'artista-intellettuale, caratterizzato da una coscienza critica, e pronto a parlare a nome di una collettività, si sostituisce l'artista mediatore, che lavora sulla connessione e sulla contingenza. All'artista specializzato, forte di un saper fare quasi esclusivo, si sostituisce un artista che mescola i tratti del professionista e dell'amatore, e che sembra seguire le pratiche grass roots. Infine, a un artista radicato in un territorio circoscritto (l'istituzione-arte) si sostituisce un artista aperto al mondo, ma anche capace nel suo nomadismo di trovare una propria casa. In tutti e tre i casi, l'arte sembra riflettere andamenti più generali presenti nella nostra cultura: mediazione, pro-am e glocal caratterizzano molta della produzione culturale contemporanea. Contemporaneamente, in tutti e tre i casi, l'arte sembra anche stabilire una sottile complicità con i media: sono essi infatti i luoghi in cui queste tendenze si manifestano con più evidenza – e forse anche esercitano la maggior influenza. Ma se è vero che mai come in questo momento l'arte riflette il suo tempo, fino ad incorporare in sé ciò che avviene sul piano dei processi simbolici e comunicativi più diffusi, è anche vero che l'arte fa questo come sa fare, e come ha sempre fatto: da arte, capace di offrirci la cifra di quello che sta accadendo, e soprattutto capace di evidenziare, spesso impietosamente, i processi in corso. È su questo discrimine che l'arte, anche in un momento "mediatico" come il nostro, ritrova alla fine stessa. In un fare appassionato e denso, che mescola testimonianza e piacere.





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