jerry saltz

Intervista

di Michele Robecchi



Jerry Saltz è stato l’occhio del Village Voice dal 1998 al 2007, raccontando ai newyorkesi pregi, difetti e intrighi di un mondo complesso, elitario e a volte incomprensibile come quello dell’arte contemporanea grazie ad una scrittura semplice e passionale, che non teme di raccontare verità scomode. Un modo di operare inconsueto in un ambiente dove la “critica d’arte” è spesso considerata una scienza esatta e che non ha tardato ad attirare critiche tra i colleghi, oltre che naturalmente dagli artisti stessi, anche da galleristi e direttori di museo che vedono una recensione negativa come un danno per tutta la categoria. La forza di Saltz invece consiste proprio nel dare alla critica quello che si cerca nell’arte: originalità, sperimentazione, sorpresa, e soprattutto una visione. La sua prosa non è accademica, non si nasconde dietro concetti astratti o frasi fatte, cerca invece di scavare a fondo. La storia, del resto, si può studiare in due modi: il primo è quello di affidarsi ad un manuale che operi un processo di ricostruzione e rilettura critica; il secondo è quello di andare direttamente alla fonte primaria. Vedere ad alta voce può funzionare in entrambi i modi. Gli scritti di Saltz non solo fotografano con precisione un decennio fondamentale in una città come New York, il luogo per natura più adatto ad illustrare i frenetici cambiamenti e le tendenze prodotte dall’arte contemporanea, ma contribuiscono anche a riqualificare un genere periodicamente considerato inutile come la critica, con buona pace di chi pensa che l’arte non abbia bisogno di nient’altro che se stessa per sopravvivere. Parlare d’arte è importante come farla, ed è una grossa responsabilità. I critici di oggi sono gli storici di domani, e guardando ad alta voce, Jerry Saltz lo dimostra.



Come hai iniziato? So che eri un artista, si dice che per un certo periodo hai fatto il camionista, ma non so com'è avvenuta la transizione a critico d'arte.

A vent'anni mi sono trasferito da Chicago a New York. Ero un artista, e in seguito ho avuto una breve parentesi come autista di tir. Una volta al mese andavo avanti e indietro da New York al Texas. Però mi piaceva il mondo dell'arte, volevo farne parte, e pensavo che scrivere fosse il modo più facile per entrarci. Naturalmente mi sbagliavo. Scrivere non mi veniva facile, ma mi allenavo leggendo il maggior numero di riviste e libri d'arte possibili. Non capivo una parola di quello che leggevo e ho cercato di imparare a scrivere in quel modo perché mi sembrava una cosa intelligente da fare. Ho iniziato così.

E poi cos’hai fatto, hai mandato dei testi alle varie redazioni?

No. Ancora prima di aver scritto una parola ho iniziato a dire a tutti che ero un critico d'arte, finché all'improvviso Richard Martin, il direttore di Arts Magazine, mi chiamò e mi disse che aveva sentito che scrivevo e se mi interessava fare qualcosa con loro. Gli risposi che mi sarebbe piaciuto avere una rubrica mensile in cui parlavo di una singola opera d'arte. Mi sarei concentrato di volta in volta su un quadro, una scultura, un'installazione... Lui disse che andava bene. Era il 1989 credo, prima non avevo scritto niente. Fu anche una questione di fortuna, il mondo dell'arte era in crisi, non c'erano soldi, l'attenzione si era spostata altrove, le gallerie iniziavano a chiudere. Arts Magazine stesso chiuse un paio di anni dopo, era un periodo in cui tutti si arrangiavano e facevano quel che potevano, e siccome non c'erano successo e denaro in palio, c'era molta libertà nell'aria. Era un buon momento per iniziare a scrivere perché non ero stato scottato dalla storia degli anni Ottanta o quella prima. Ogni cosa era completamente nuova per me, una nuova generazione di galleristi, curatori e critici stava emergendo con me in quell'esatto momento anche se ai tempi non sapevo ancora di farne parte.

Quando scrivevi per il Village Voice, eri consapevole di operare in una situazione privilegiata d’indipendenza? Chi recensisce sulle riviste d’arte opera in un contesto troppo legato alla situazione economica, diventa difficile criticare mostre di gallerie che provvedono anche al sostentamento delle riviste stesse.

Non ho mai avuto un direttore, in nessuna delle riviste per cui ho lavorato, che mi spingesse a non essere troppo negativo con le gallerie o gli artisti. È vero che le riviste d'arte sono legate alla pubblicità delle gallerie ma a me non è mai capitato che qualcuno mi dicesse di no. È l'opinione del critico. A volte mi dicevano che quello che avevo scritto non aveva senso però non mi hanno mai fatto cambiare una virgola.

Secondo te il fatto che tu abbia iniziato tardi come critico può aver influito sul tuo modo di scrivere? Mi riferisco in particolare al tuo atteggiamento distaccato nel confronto del mercato e della storia della critica d'arte in generale.

Ottima domanda. Non ci ho mai pensato molto ma in tutta onestà credo che il mio fosse un caso disperato. Forse il fatto di aver iniziato tardi e di aver passato così tanto tempo completamente separato dal mondo dell'arte, sperando di farne parte ma senza essere in grado entrarci, ha fatto sì che quando ho finalmente avuto una possibilità quel senso di disperazione mi permettesse di superare l'idea di voler piacere a tutti, e di raggiungere l'altro emisfero del mondo della critica, quello non positivo ma scettico, che non ha paura di fare domande scomode in pubblico.

Hai mai avuto un periodo di crisi?

Certo, tutte le volte che mi siedo a scrivere [...]

L’acquisto del Village Voice da parte di New Times Media ha contribuito alla tua decisione di lasciare il giornale?

No, non ho mai letto il Village Voice. Leggevo solo il mio lavoro e gli annunci. Sono stato fortunato, negli ultimi anni hanno assunto e licenziato un sacco di gente, ma mi hanno sempre lasciato in pace. Non hanno mai detto una parola negativa su di me, sono sempre stati molto corretti. Il Village Voice è stato il mio lavoro ideale per otto anni, otto mesi, sette giorni e cinquanta minuti.

Una storia che ho sentito, probabilmente apocrifa, è che quando eri al Village Voice non ti era permesso, per contratto, di cenare con i galleristi in modo da mantenere la tua imparzialità. È vero?

No, non è vero. Adoro i galleristi. Credo siano tra le persone più interessanti del mondo dell'arte. Creano il loro universo estetico, investono sui loro gusti, però per quanto li ami cerco di avere una relazione con loro il più neutrale possibile. Ovviamente parlo con loro perché mi piacciono e li rispetto. La gente sbaglia ad attaccarli, non sono interessati solo ai soldi, vogliono dare una forma alla cultura, proprio come noi. Però è meglio mantenere le distanze, ancora di più con gli artisti. Se devo scrivere di un artista, non cerco mai di contattarlo o di fargli domande sul suo lavoro.

Della competizione tra critici cosa ne pensi? Segui il lavoro dei tuoi colleghi?

Sì, leggo moltissimo e credo, entro certi limiti, di essere a favore di una forma di competizione. Mi chiedo spesso se gli altri stiano facendo meglio di me e perché, anche se bisogna dire che non c'è molta gente che fa questo lavoro sulla terra. Come competizione è piuttosto intima, sono cose che sappiamo solo noi, è abbastanza divertente.[...]

Tempo fa ho letto dell'idea, tua e di Dan Cameron, di pubblicare per scherzo una rivista intitolata Biennale che si occupi esclusivamente del fenomeno. Secondo te c'è un rapporto tra questo proliferarsi di biennali e la loro qualità?

Secondo me è un formato che va esplorato. La Biennale di Berlino nel 2006 era un esperimento, la Biennale di Venezia di Francesco Bonami pure. Credo sia una questione di mentalità più che di quantità.

Massimiliano Gioni ha fatto un'osservazione che mi è piaciuta molto in proposito, ha detto che prendersela con le biennali è come dire che ci sono più malattie perché ci sono più ospedali.

Fantastico. Sono d'accordo, non sono le biennali il problema. Dare la colpa alle biennali è come cercare di riparare il motore della tua macchina coprendo la spia sul cruscotto. È un'idea assurda.

Hai avuto qualche trascorso curatoriale come, ad esempio, la Biennale del Whitney nel 1995. Credi che quell’esperienza abbia cambiato il modo in cui guardi una mostra?

Detesto fare il curatore. Non sono assolutamente capace di mettere un oggetto in una stanza in relazione con un altro e non mi piace chiedere agli artisti cosa pensano che debba fare. Per me è stata un'esperienza terrificante. Ammiro i curatori, non so come facciano con tutte quelle riunioni, quei comitati. Ammiro anche quella qualità, l'arte di saper disporre gli oggetti in uno spazio, ma io sono negato. I titoli delle mie mostre passeranno alla storia come i più stupidi in assoluto. Ricordo che ne ho fatta una che si chiamava Black and White, un altra Four Painters. Terribile.

Ma non ti piaceva neanche l'aspetto più creativo del lavoro, quello in cui cerchi di costruire qualcosa insieme agli artisti?

Mi piace moltissimo ma non sono proprio capace. Quando, invece, si scrive tocca all’artista esporre il proprio lavoro e poi tocca a me dire cosa ne penso.

Spesso usi l’ambigua espressione “beniamino dei curatori” per definire un artista. Non si capisce se lo consideri un pregio o un difetto.

Sì, è una descrizione a doppio taglio. Il mondo dell'arte è un organismo auto-replicante e quando un curatore mette Jorge Pardo in una mostra, all'improvviso un altro curatore lo vede, ha una visione diversa e lo mette in un'altra mostra e il risultato è che poi Jorge Pardo è presente in cento mostre, come se il suo lavoro fosse la risposta a tutte le teorie del mondo. Per me va bene, io mi limito a segnalare un semplice fatto. Ci sono altri artisti altrettanto interessanti, peccato che non fanno parte del gruppo dei soliti settantasei che vediamo nel circuito internazionale. Ma si tratta di una tendenza e spero che, come tutte le tendenze, lentamente scompaia.
Dell’ultima Documenta cosa ne pensi?

So che i critici inglesi hanno definito Documenta 12 la mostra più brutta mai fatta nella storia dell'arte contemporanea.

L’ha scritto Adrian Searle sul Guardian, ma non tutti sono d’accordo.

Searle mi piace moltissimo. Le cose che ho visto a Documenta non rientrano proprio nelle mie preferenze, ma mi è piaciuta l'idea dei curatori di prendere una posizione polemica e di presentare la mostra in questo modo. Erano incredibilmente arroganti, quasi crudeli nei confronti dell'arte, però a conti fatti abbiamo tutti conosciuto degli artisti nuovi e visto quelli che conoscevamo in un'ottica diversa. Mi è sembrata una mostra un po' tirannica, e questo è un problema serio, ma mi riferisco solo al concetto, al contrario della Biennale di Venezia. I critici americani l'hanno definita "la miglior biennale di sempre". Io non sono molto d'accordo, nel Padiglione Italia c'erano dei grandi artisti, ma non sembrava una Biennale. Era una mostra di cassetta, da museo di provincia. Sigmar Polke, Gerhard Richter, Bruce Naumann, Elsworth Kelly... difficile sbagliare con gente del genere.

Sembrava il MoMA secondo Robert Storr.

Esatto, e questo approccio ha rivelato tutte le sue debolezze nell'Arsenale, dove c'era in atto una specie di segregazione formale, con la fotografia e l'arte concettuale messe tutte insieme. A me non sembrava una Biennale. Non so come la pensi tu, ma io sono uno dei pochi a cui è piaciuta la Biennale di Francesco Bonami nel 2003. Mi è piaciuto il caos. Ha creato una mostruosità che rifletteva perfettamente i nostri tempi.

Vero. Probabilmente anche l'insopportabile clima di quei giorni ha contribuito in maniera rilevante alle critiche negative.

Davvero... c'erano più di quaranta gradi quell'estate. Però voglio dirti una cosa: il mondo dell'arte è un esercito di volontari, nessuno è obbligato ad esserci. Non dovevi essere a Venezia in quei giorni se non volevi. Certo, faceva caldo, e a New York durante la fiera fa freddo, e a Londra quando c'è Frieze piove, e a Berlino d'inverno si gela, però dai... siamo seri.

Non c'è dubbio, però, che i vernissage di questi grandi eventi rappresentino le imperdibili occasioni per alimentare quella mondanità a cui il mondo dell'arte non vuole rinunciare.

Lo capisco bene, anche a me piace spettegolare con la gente in quelle occasioni. Il guaio è che, come ben sai, alla fine si parla molto e si guarda poco. Ma questo è un problema che deve risolvere la prossima generazione, la tua generazione.

Secondo te la critica d'arte può essere generazionale? Riesci a pensare al giorno in cui l'arte ti sembrerà derivativa a causa della tua esperienza?

Temo di sì. Tutti i critici ad un certo punto perdono la loro capacità di vedere, ed è un peccato, soprattutto perché raramente se ne accorgono. Magari anch'io ho perso lo smalto dei miei giorni migliori senza rendermene conto, ma credo che un modo per tenere l'occhio in esercizio sia quello di continuare a guardare. [...]

Secondo te come mai a volte la critica d'arte può essere prevedibile e restare ingarbugliata in un linguaggio di circostanza, utile per tutte le occasioni? Il cosiddetto "critichese"?

Capita alla critica d'arte come a qualsiasi forma di scrittura. Anche la musica può essere così, segue dei canoni, basta che accendi la radio e te ne accorgi. L'ho già detto altre volte, secondo me il 90% dell'arte è pessima. Il 9% è buono, l'1% è favoloso e, forse, rimarrà nella storia. Sono percentuali che possono cambiare, dipende da tante cose, ma secondo me per la critica funziona allo stesso modo. La maggior parte non dice niente, tanto qualcosa di interessante si trova sempre. Il bello è che quello che a te piace magari a me fa schifo e viceversa. È questo che tiene in piedi la faccenda, che la rende viva. Non ci sono canoni, è un movimento costante. C'è stato un momento storico in cui la critica si è fossilizzata per colpa degli accademici. Magari non hanno ucciso una generazione, ma l'hanno sicuramente bloccata, ritardandone la crescita. Se devo dirti la verità ho l'impressione che sia l'arte che la critica oggi stiano vivendo un momento simile ai primi anni Novanta, quando ho iniziato io. è vero, ci sono più soldi, il mercato è una realtà forte, eppure ho la strana sensazione che stia nascendo qualcosa di nuovo ed è davvero emozionante, forse anche un po' terrificante per uno come me.

Spesso metti in evidenza quanto la critica d'arte diventi nociva quando è troppo positiva o neutrale. Pensi che la consapevolezza di questo fatto abbia influenzato il tuo modo di lavorare?

Secondo me essere severi con l'arte significa mostrarle rispetto. Se sei un fan o una mascotte non sei un critico, mi spiace. Molti grandi critici pensano di sì, ma per me questo modo di ragionare rende un cattivo servizio al mondo dell'arte in genere. Se la gente passa il tempo a dirsi quanto è brutta questa o quella mostra e poi tutte le recensioni sono positive significa che la situazione è grave. I critici dovrebbero essere più severi. Posso concedere delle attenuanti solo ai giovani. D'altra parte, quando inizi a scrivere e hai venti-trent'anni, non vuoi distruggere il mondo che ti circonda. Vuoi solo scegliere quelli che ti piacciono e far sapere a tutti quanto sono bravi.

La critica quindi è prigioniera di un determinato apparato teorico. Tu stesso però sostieni questa tesi in modo molto radicale. Non c'è il rischio che, paradossalmente, si possa diventare vittima dello stesso meccanismo che denunci? Non so se mi spiego, è un po' lo stesso problema del cinema di Michael Moore. Sono d'accordo con il 90% delle cose che dice, ma non su come le dice.

Al Village Voice ho dovuto abituarmi ad esprimermi nello spazio ristretto di 800/900 parole e questo mi ha costretto ad essere telegrafico. Non ce l'ho con la teoria, eppoi non credo che arte e teoria siano molto diverse sotto questo punto di vista. Ogni opera rappresenta nel suo piccolo una teoria di cosa debba essere l'arte. È un fatto di cui sono consapevole. Quando sento gente che sostiene che non ci dovrebbero essere teorie, beh... per quanto stupida, quella è la loro teoria. È vero, una delle debolezze del mio lavoro è che può sembrare troppo generico, ma in questo caso riconosco che la colpa è solo mia, mai del lettore.



postmedia books Michele Robecchi vive a Londra dove lavora come critico e curatore.
Ex-capo redattore di Flash Art International, ha diretto la rivista Contemporary (2005-2007)  e attualmente segue le pubblicazioni d'arte contemporanea per Phaidon Press. Dal 2006 è Visiting Lecturer presso Christie's Education a Londra. Nel 2007 è uscita una sua monografia su Sarah Lucas per Electa Mondadori.