Stefano Bianchi / CoolMag / 02-2007
Ha immerso 3 palloni da basket in un acquario colmo d’acqua distillata (Three Ball Total Equilibrium Tank, 1985). È riuscito a sbiancare Michael Jackson e la sua scimmia per poi trasformarli in un soprammobile di porcellana (Michael Jackson and Bubbles, 1988). Si è inventato un cucciolo di cane alto 12 metri e ricoperto da 70.000 fiori (Puppy, 1992). Mirabilie di Jeff Koons. Pop-artista snobbato dai critici, apprezzato dal pubblico, acquistato a cifre esorbitanti da “nouveau riches” e musei. Da quando s’è messo a cavalcare (ironicamente? cinicamente?) gli Anni ’80 dell’edonismo reaganiano, Koons non ha fatto altro che insinuare dubbi: genio? maxi bufala? marketing manager? clone warholiano? Diciamo, piuttosto, abile descrittore della vacuità contemporanea fatta di glamour a regola d’arte e kitsch a regola di vita. Grande fan, soprattutto, di Marcel (Duchamp) & Andy (Warhol). Febbrilmente citati aggiornando l’estetica del “ready-made” (il primo) e il display numerico della serialità (il secondo). Le mille anime “pop” dell’artista nato nel ’55 a York, in Pennsylvania, vengono riassunte nel dettagliato libro Jeff Koons. Retrospettivamente, con testi critici di Gunnar B. Kvaran, Arthur C. Danto (Banale e celebrativa: l’arte di Jeff Koons) e Hanne Beate Ueland, nonchè un’approfondita intervista a cura di Rem Koolhas e Hans Ulrich Obrist.
Ad emergere è la scientifica “mission” (impossible?) dell’artista, che ha mirato dritto al cuore della società dei consumi creando ossessivamente un “merchandising” da classe media americana (porno incluso: vedi le immagini di Wolfman e Manet del ’91, copulanti sesso con la ex moglie Cicciolina/Ilona Staller) con lo scopo di invadere totalmente lo spazio riservato alla beatificazione dell’oggetto/merce. Da qui, in un “happening” compulsivo di sculture, quadri e oggetti, i “giocattoli” fiabeschi in acciaio inox (Rabbit, Ballon Dog, Monkeys, Lobster) e in plastica (Inflatable Flowers, Bunny); le statue/souvenirs di legno policromo (Buster Keaton, Ushering In Banality) e porcellana (Pink Panther); la serie di “manifesti” pubblicitari Luxury And Degradation; gli oggetti della banalità fusi nel bronzo (Lifeboat, Aqualung) e nell’acciaio (Baccarat Crystal Set, Travel Bar); gli affreschi kolossal Hook e Play-Doh, Loopy e Cut-Out, che si ricollegano alla tradizione Pop di James Rosenquist frullando icone della pubblicità, fumetti, Magritte, voyeurismo e iperrealismo. Per dirla con Koons: «Arte competitiva in una società competitiva».


 
Giovanna Canzi / ilsole24ore.com / 20-04-2007
Objet trouvé: articolazioni di un paradigma

Di quanti figli un uomo può dirsi padre? Biologici una qualche dozzina, putativi infiniti. Ben lo dimostra Marcel Duchamp che, con il suo stuolo di artisti-seguaci, continua a godere i frutti di una prolifica e feconda paternità. A celebrare la sua influenza mai sopita, una mostra dedicata a tre dei suoi più rappresentativi "figli": Damien Hirst, Jeff Koons e Gerhard Merz. Allestita al Kunsthaus di Bregenz – fino al 13 maggio – "Re-Object" mette in luce il forte legame che tiene avvinti i tre artisti contemporanei a colui che per primo inaugurò la stagione del "ready-made". Oggetti "già pronti" - da una ruota di bicicletta a un orinatoio - eletti a diventare opera d'arte per il solo intervento dell'artista che li ha scelti, firmati e ricontestualizzati nell'ambito dell'arte. Oggetti, la cui scelta non risponde ad alcun criterio estetico ("la scelta di questi ready-made non è stata mai dettata da un piacere estetico: si è basata su una reazione di indifferenza visiva, con un'assenza totale di buono o cattivo gusto" scriveva Duchamp), bensì è ritmata su un sottile procedimento concettuale – quello di spostare l'uso e quindi il significato degli oggetti trovati – che rivoluziona il panorama artistico del tempo, aprendo la strada a una miriade di sperimentazioni. Con questo fondamentale intervento di rinominazione linguistica, Duchamp si aggiudica un ruolo di primo piano nei libri di Storia dell'Arte, influenzando moltissimi movimenti dalle Neoavanguardie dagli anni Cinquanta in poi, in tutte le forme di allontanamento dalla pittura (oggetti e materiali del Neodadaismo) o di sconfinamento nella teatralità (performance, Body Art…). Come sottolinea, infatti, Herbert Molderings - critico e curatore della mostra austriaca - "l'invenzione di Duchamp, ossia rendere opera d'arte qualche cosa che è in realtà un oggetto comune, è il vero caposaldo del Dadaismo e del Surrealismo. Né la Pop Art americana o inglese, né il francese Nouveau Réalisme, né il movimento Fluxus, né qualsiasi forma concettuale di arte avrebbe potuto esistere senza l'apporto di Duchamp come modello". Osservando i suoi più importanti ready-made qui in mostra - la famosa "Ruota di bicicletta" e "Fontana"- risulta chiara la volontà di scardinare i preconcetti della critica, di far vacillare le certezze di chi pretende di stabilire (con certezza) cosa sia "Arte" e cosa non lo sia. Lo stesso intento provocatorio è stato di certo colto da Damien Hirst, esponente di punta della Young British Art, pupillo del magnate dell'Arte Contemporanea Charles Saatchi, sempre pronto a stupire con lavori di forte impatto emotivo. Ne è un esempio il gigantesco squalo tigre di 4 metri, conservato in 20 tonnellate di formaldeide, vero cuore dell'esposizione di Bregenz. L'opera "The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living" ("L'impossibilità fisica della morte nella mente dei viventi") realizzata nel 1992 è qui riproposta dopo un accurato restyling, dato che l'enorme mammifero, poco dopo il suo debutto, ha cominciato a marcire. Divenuto in breve tempo metafora del terrore e dello sgomento che l'uomo prova di fronte alla morte, il terribile squalo richiama il concetto duchampiano di ready-made (è un "oggetto" già presente in natura, intrappolato in una teca trasparente) e nel contempo se ne distacca per la carica di pathos e di coinvolgimento emotivo, che volutamente mancava nelle opere del padre francese. Ancor più debitore della rivoluzione concettuale che, da Duchamp arriva a Andy Warhol, è sicuramente Jeff Koons, fra gli artisti più controversi e quotati del momento. Il suo esordio - la serie "Inflatable" con giganteschi fiori gonfiabili o "The New", con luccicanti aspirapolvere allestiti nelle vetrine del New Museum of Contemporary Art di Soho - ben dimostra come il pubblico non avrebbe potuto ammiccare al suo messaggio, senza l'eredità del ready-made duchampiano. Come, infatti, sottolinea Arthur C. Danto in un saggio presente in "Jeff Koons. Retrospettivamente", Postmedia 2007 (www.postmediabooks.it), questi oggetti erano esteticamente invisibili quando facevano parte della vita ordinaria, ma dopo "The New" una persona sofisticata avrebbe potuto allestire la propria tavola con dei fiori di plastica gonfiabili, certa che amici altrettanto sofisticati li avrebbero potuti apprezzare. Ad allontanare l'allievo dal maestro francese è, invece, la carica di creatività delle opere successive: oggetti progettati con una fantasia e un'immaginazione quasi surrealista, che stando alle parole dello stesso Koons possiedono "un senso interno del ready-made". Si tratta di palloni da basket sommersi nel liquido o di bizzarre porcellane - quelle della serie "Banality"-, in cui l'artista esalta la superficialità e la decadenza delle icone popolari contemporanee. E per finire un piano del Kunsthaus è dedicato a un artista altrettanto noto: il tedesco Gerhard Merz, che da anni ha sviluppato un concetto di pittura fortemente influenzata da un intento architettonico e dall'idea di perfezionamento di opere esistenti, non create ex novo. Per la mostra "Re-Object" Merz ha elaborato appositamente un nuovo gruppo di lavori con tre quadri di grande formato e una striscia di luce composta da 400 lampade. La luce fortissima di questi "objets trouvés" industriali, con i suoi raggi accecanti, richiama il procedimento di Duchamp e nel contempo lo supera, proponendo un'arte che cerca appositamente di impoverire l'estetica dei quadri, quando connessa a un valore retinico, già fortemente ironizzato dal padre francese.

Re-Object. Marcel Duchamp, Gerhard Merz, Damien Hirst, Jeff Koons
Fino al 13 maggio 2007
Kunsthaus Bregenz
 
Andrea Ruggieri / Arte e critica / 05-2007
Il motivo per il quale nel 1980 – anno in cui fecero per la prima volta la loro comparsa gli aspirapolvere di Koons nelle vetrine del New Museum ofContemporary Art di Soho – qualche distratto passante era in grado di attribuire valore estetico a quelle teche, ignorandone magari le motivazioni, è rintracciabile secondo Arthur C. Danto nella traccia indelebile che la lezione di Warhol aveva lasciato nel gusto e nella cultura della classe media americana. Koons, che recupera fra i feticci di una cultura del consumo anche banali soprammobili, giocattoli, palloni da basket, icone erotiche, fornisce così al “consumatore” riferimenti immediatamente intellegibili, infondendo speranza nel proprio gusto e nella propria capacità di giudizio. Con un procedimento che trova nel ready-made duchampiano la sua giustificazione e la sua quadratura, l’artista riscatta il lavoro degli artigiani cui commissiona le sue sculture, realizzando con furbizia un’arte comprensibile, radicata nella cultura popolare (già ripresa alcuni decenni prima dalla Pop Art) e discendente diretta della scultura minimalista di Judd e Flavin. Merito, dunque, della monografia Jeff Koons. Retrospettivamente, edita in Italia da Postmedia, è quello di fare il punto sul percorso artistico di Koons a quasi trent’anni dal suo debutto, rintracciando nella sua opera vasta e diversificata un’onnipresente matrice concettuale. Obiettivo centrato accostando una precisa introduzione di Gunnar B. Kvaran, al brillante saggio di Danto, e una cronologia delle opere di Kvaran e Hanne Beate Ueland ad un’intervista realizzata da Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist che svela i segreti di un artista che ha saputo fare della sua arte un’impresa mediatica.



Cara Ronza / Arte e critica / 10-2007
Jeff Koons. Così kitsch da far tremare il sistema. Con i suoi lavori sfacciatamente kitsch, da trent’anni Jeff Koons sfida e forza l’art system. Dice che vuole trasformare l’arte in una faccenda democratica. Sostiene il diritto di chiunque a giudicare un lavoro bello o brutto, un’opera d’arte oppure no. E soprattutto sostiene il proprio diritto a proporre al pubblico quello che piace a lui, secondo il principio della pura estetica della comunicazione. Il fatto è che quello che piace a lui piace anche a molti altri. I suoi lavori che sembrano scherzi vendono ed entrano a far parte delle maggiori collezioni d’arte contemporanea del mondo. Jeff Koons – Retrospettivamente (Postmedia, 112 pagg. 90 ill., e 18,60) presenta uno ad uno i suoi cani fioriti alti 12 metri, le spudorate pose erotiche con l’allora moglie Ilona Staller, Michael Jackson in porcellana, i ready-made che sanno di edonismo reaganiano. Tra gli scritti del libro, una lunga intervista a cura di Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist e un saggio di Arthur Danto su Koons, Duchamp e Warhol.



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