Immagini d'architettura - Architettura d'immagini
Conversazione tra Jacques Herzog e Jeff Wall
a cura di Cristina Bechtler

postmedia books 2005
80 pp.
-- 42 illustrazioni
isbn 9788874900220




 

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Da una parte Jacques Herzog ritiene che l’architettura sia fatta per essere sperimentata, dall’altra un artista come Jeff Wall cerca di comprendere come trarre vantaggio dagli eventuali errori nelle sue fotografie. Da un fotografo ci aspettiamo delle immagini - dice Herzog - ma forse non era previsto che anche l’architettura cominciasse a pensare in termini d’immagine. Ecco le premesse di un’affascinante conversazione nella quale si parla di: arte e architettura, elementi comuni alle due discipline quali tempo, narrativa e sperimentazione, facili insidie della fotogenia e dell’estetizzazione dell’immagine, come si costruiscono immagini ed edifici, rifiuto del postmoderno, importanza dei sensi, eredità culturale, rapporto con i localismi, nuove frontiere ed equilibrio tra contemporaneità e tradizione.

Gli architetti traggono spesso ispirazione dall’arte contemporanea, non solo dalla sua presenza tattile, fisica e dal trattamento fantasioso dei materiali, ma anche dall’investigazione analitica che opera sulla società. Arte e architettura si ritrovano in un dialogo reciprocamente fruttifero. L’architettura più innovativa propone soluzioni che incorporano strategie artistiche; mentre il contenuto di molta arte si può spesso mettere in relazione a dati architettonici. Questa pubblicazione offre una discussione tra due dei maggiori rappresentanti di arte e architettura; ognuno conosce il lavoro dell’altro sebbene non abbiano mai collaborato su progetti reali.
(dalla prefazione di Cristina Bechtler)

 



Jeff Wall è nato a Vancouver nel 1946, si dedica da circa venticinque anni alla realizzazione dei suoi lightbox. Dal 1979 espone le sue opere a Documenta X Kassel, Centro Reina Sofia, Jeu de Paume, Boijmans van Beuningen di Rotterdam.


Jacques Herzog forma con Pierre de Meuron una delle coppie più affermate dell'architettura contemporanea. Nascono a Basilea nel 1950 e si conoscono all'università dell'ETH di Zurigo. Nel 2001 sono i primi architetti svizzeri a ricevere il Pritzker Architecture Prize.







  postmedia books Maurizio Bortolotti / Domus n.901 / 03-2007

Quando un artista e un architetto si incontrano per una discussione quello che accade è che, da un lato, vi è la volontà esplicita di raccontarsi e di raccontare il proprio lavoro; dall’altro, quello di difendere il proprio spazio creativo da sguardi troppo indiscreti o da accostamenti inefficaci. Ed è quello che accade anche in questo libro. Alla fine, però, la discussione tra l’artista Jeff Wall e l’architetto Jacques Herzog, che firma i suoi progetti con Pierre de Meuron, lascia affiorare alcune questioni di rilevanza centrale nel lavoro di entrambi, con spunti di riflessione che mostrano quanto la produzione artistica porti con sé inevitabilmente anche un bagaglio di nuove idee.
La più interessante è quella dell’importanza delle immagini per l’arte e l’architettura contemporanee. In realtà, il termine ‘immagini’ da loro utilizzato nella discussione, per una migliore comprensione, andrebbe sostituito con quello di ‘iconografia’ e, più precisamente, all’interno del loro discorso, di “iconografia del banale”; che assume qui una luce nuova e una vitalità insospettata. Ed è Herzog a definire abbastanza chiaramente il rapporto tra i due e il significato che assume questo incontro di poetiche: “Una grande differenza è che Jeff può produrre immagini (…) più di quanto facciano gli architetti. Ma la questione tocca un argomento molto importante, e cioè, noi abbiamo sempre basato il nostro lavoro sulle ‘immagini’. (…) Quando eravamo giovani il postmoderno era in ascesa, ed è sempre stato per noi qualcosa con cui non riuscivamo ad identificarci”. E continua più sotto: “Mentre eravamo alla ricerca di alternative ci è capitato di usare il video (…) Così abbiamo prodotto immagini di cose che potevano diventare architettura. Le immagini mostravano interni tradizionali e scene di vita ordinaria” (p. 11).
Anche Jeff Wall, che all’inizio era orientato verso la ricerca di un significato nelle immagini – come ci dice lui stesso – ora appare sempre più attento a una registrazione dell’esperienza di ciò che gli sta di fronte: quasi fosse impossibile nominare la realtà e consentito solo coglierne il valore esperienziale. Dunque, è il problema di una quotidianità sempre più omologata ovunque e di uno spazio urbano senza identità a preoccupare entrambi. E la questione del carattere ordinario della quotidianità della vita contemporanea diviene il terreno comune su cui confrontarsi. Sul quale è anche possibile recuperare la definizione di ‘modernità’, al di là di ogni tensione utopica: “La città moderna è peggio che ordinaria, è molto importante non usare una città come background specifico. (…) Non mi piace l’idea del ‘genius loci’”, afferma Wall (p. 23).
Tuttavia, essi affrontano la questione con un diverso atteggiamento. Per l’artista Wall è il fascino dell’inespressivo e del banale ad attirarlo, e quindi dell’incidente casuale che può avvenire all’interno del set scelto per le sue immagini. Come nel caso veramente emblematico di Morning Cleaning, che è la fotografia di un addetto che pulisce l’interno, altrimenti così perfetto, dell’ambiente in stile modernista creato da Mies van der Rohe a Barcellona nella fondazione a lui dedicata. Il banale fatto quotidiano appare come un ‘incidente’, ma diviene criticamente significativo della fuoriuscita dalla tradizione modernista. La vita, con la sua banalità, continua anche dentro gli spazi cristallizzati del moderno, andando al di là di questi. Per Herzog la cosa veramente importante è rompere la facciata degli edifici e rappresentare direttamente le superfici con la loro materialità. Per lui l’architettura si completa solo con il tempo e con le persone che vi abitano, perciò “le città sono come dei campi di battaglia, riflettono fisicamente forze e debolezze umane” (p. 24).
Quello che conta, per esempio nei suoi progetti cinesi, non è l’architettura come forma, bensì come le persone la abitano e la vivono. Ecco perché il grande stadio di Pechino è stato pensato come forma secondo codici e immagini che appartengono alla tradizione locale e che dunque sono nelle coscienze degli abitanti della grande città cinese. La qualità dell’incidente o dell’architettura completata dai suoi abitanti ci annuncia un punto di vista avanzato, un’attenzione che rispecchia un modo di procedere disordinato, che riflette a sua volta la realtà contemporanea.
La soluzione per questa condizione non sembra essere presente nelle città moderne. Si potrebbe dire che la modernità continui ad esistere ma non abbia più un’iconografia definita, e assuma invece il volto mutevole del banale quotidiano - così come è inteso nei video degli architetti Herzog & de Meuron o in certe fotografie di Wall – da cui essa sembra trarre una nuova linfa vitale nelle realizzazioni dei due artisti. Nella incessante navigazione che loro conducono all’interno degli orizzonti di una modernità ormai aperta, nella quale essi sviluppano l’interpretazione di uno spazio in cui si producono le relazioni tra le persone. E questo appare certamente essere uno spazio mobile, poiché in esso nasce e si sviluppa il flusso della nostra vita quotidiana.


When an artist and an architect meet up for a discussion there is, on the one hand, an express desire to talk about themselves and their own work and, on the other, a desire to protect their creative field against impertinent and unproductive parallels – and this happens in this book, too.
In the end, however, the discussion between artist Jeff Wall and architect Jacques Herzog, who produces projects with Pierre de Meuron, raises issues of central importance to the work of both, prompting observations on the fact that artistic production inevitably bears a wealth of new ideas. The most interesting observation regards the importance of images in contemporary art and architecture. For greater clarity, the term “images” as adopted in their discussion should be replaced with “iconography” and more specifically, within their discourse, “hackneyed iconography”, which in this case is seen in a new light and with unsuspected vitality. It is Herzog who quite clearly defines the relationship between the two and the meaning of this meeting of poetics: “One major difference is that Jeff can produce images… more than architects can. But the issue touches on a major argument, namely that we have always based our work on ‘images’… Postmodernism was on the rise when we were young and it was something we always failed to identify with.” He continues later: “While seeking alternatives we happened to use video… so we produced images of things that could become architecture. These images showed traditional interiors and scenes from everyday life.” (p. 11)
Jeff Wall initially focused on the search for meaning in images but – as he himself says – he now increasingly focuses on recording the experience of what is before him. It is almost as if it were impossible to mention reality and we can only seize on the experiential value. Both are therefore concerned with an increasingly standardised everyday life all over and an urban space with no identity of its own. The problem of the ordinariness of everyday contemporary life has become the common ground for dialogue. Here the definition of “modernity” can be retrieved, beyond all utopian tension: “The modern city is worse than ordinary and it is important not to use a city as a specific backdrop… I don’t like the idea of the ‘genius loci’,” says Wall. (p. 23)
However, they address the problem with different attitudes. Wall has a fascination for the soulless and the banal - a chance occurrence on the set chosen for his pictures. This was the truly emblematic case of Morning Cleaning, a photograph of a cleaner at work in the Modernist interior created by Mies van der Rohe in the foundation that bears his name in Barcelona. The banal everyday occurrence looks like an “accident” but comes to critically signify the exit from the Modernist tradition. Life with its platitudes continues, even in the frozen spaces of Modern style, and goes beyond them. What really matters to Herzog is breaking down a building facade and directly portraying its surface and texture. He believes architecture is only completed with the passing of time and by the people who live there: “Cities are like battlefields, they physically reflect human strengths and weaknesses.” (p.24)
The important thing in his Chinese projects, for example, is not the architecture in the sense of form but how people live in it. That is why the form of the large Beijing stadium was based on codes and images drawn from local tradition, which are in the conscious of the inhabitants of the large Chinese city. The virtue of the incident or the architecture completed by its inhabitants reveals an advanced viewpoint, a focus that reflects a disorderly advancement which, in turn, reflects contemporary reality. Modern cities do not seem to contain the solution to this condition. We could say that modernity continues to exist but no longer has a specific iconography. It adopts the changing face of ordinary everyday life – as seen in the videos by the architects Herzog & de Meuron and certain photographs by Wall.
In the two artists’ realisations, modernity seems to draw new vitality from everyday life; in their incessant navigation within the bounds of a now open modernity, where they interpret a space that produces interpersonal relationships. It certainly seems to be a mobile space because it is where the flow of our everyday lives originates and develops.